“Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”. È in questa criptica ed epigrammatica frase – pronunciata da un giornalista a James Stewart al termine di un lunghissimo flashback – che è contenuto in nuce il significato più profondo de L’uomo che uccise Liberty Valance (1962): uno degli ultimi capolavori del maestro John Ford, un commovente ed elegiaco western fotografato in un crepuscolare bianco e nero che vuole smitizzare il concetto tradizionale di eroe, pur continuando a farlo vivere. Il revisionismo nel cinema western non va infatti circoscritto a pietre miliari della contestazione come Soldato blu o Piccolo grande uomo e a tutti i film successivi, ma va retrodato di almeno un decennio, quando alcuni registi (pochi, in realtà) iniziarono a mettere in discussione l’eroismo, l’epica e la retorica che da sempre ammantavano il genere. Proprio John Ford – una delle più importanti personalità della storia del cinema, e non solo western – fu uno dei primi a capire che aria tirava, dirigendo un pugno di pellicole che si riveleranno fondamentali: da I dannati e gli eroi (sul rapporto fra bianchi e neri) a Cavalcarono insieme e Il grande sentiero (sulla questione indiana), fino a quella sorta di de profundis che è appunto L’uomo che uccise Liberty Valance. E proprio in quegli stessi anni, un altro gigante del cinema western come Sam Peckinpah dirigeva La morte cavalca a Rio Bravo e Sfida nell’Alta Sierra, due film propedeutici ai suoi successivi capolavori che segnarono la fine della mitologia della Frontiera.
La vicenda inizia ai primi del Novecento, nella cittadina di Shinbone, dove il senatore Ransom Stoddard (James Stewart) giunge insieme alla moglie Hallie per assistere ai funerali di un vecchio amico, tale Tom Doniphon, e i giornalisti del quotidiano locale, lo Shinbone Star, decidono di intervistarlo per capire cosa lo abbia spinto così lontano da Washington. Stoddard inizia quindi a raccontare una lunga storia accaduta molti anni prima, quando lui era un giovane procuratore legale che dall’Est degli Stati Uniti si trasferì a Shinbone, nel West, convinto di poter esercitare la sua professione anche in terre così selvagge. Lì incontro il cowboy e pistolero Tom Doniphon (John Wayne), col quale si scontrò fin da subito sia per le loro idee opposte – l’uno si affidava alla pistola, l’altro alla legge – sia per Hallie, all’epoca fidanzata di Doniphon ma che ben presto si innamorò di Stoddard. Il giovane avvocato, nonostante la minaccia del bandito Liberty Valance che terrorizzava la zona, decise di fermarsi nella cittadina, collaborando con lo Shinbone Star e aprendo una scuola. Durante un duello, credette di aver ucciso il bandito, e su questa menzogna si fondò la sua successiva carriera politica, grazie a una popolarità sempre crescente, mentre Doniphon – il vero uomo che uccise Liberty Valance – fu dimenticato da tutti.
L’aforisma del giornalista citato all’inizio sta a significare, in sostanza, che nel mondo del West sarà sempre la leggenda a prevalere sulla realtà dei fatti, e che quindi sarebbe inutile divulgare ai lettori del giornale come si è svolta veramente l’impresa citata nel titolo. Eppure, The Man Who Shot Liberty Valance sembra vivere di una doppia anima, poggiandosi su una sorta di ambivalenza ideologica: durante le quasi due ore di flashback (il quale occupa la maggior parte del film), John Ford vuole smitizzare il concetto tradizionale di eroe e recitare l’epitaffio funebre di un genere (e dei suoi personaggi) che lui stesso per oltre vent’anni aveva glorificato; ma al termine del racconto, quando il reporter pronuncia la fatidica frase, il regista sembra voler mantenere romanticamente il coté leggendario che da sempre ammanta il West(ern), e che non lo abbandonerà mai del tutto, nonostante il cinema revisionista sia ormai alle porte. Lo stesso titolo si basa su un’ambivalenza, tra colui che secondo l’opinione pubblica ha compiuto l’impresa eponima facendo giustizia (Stoddard), e colui che invece l’ha compiuta davvero all’insaputa di tutti (Doniphon), colpendo Valance nell’ombra con una fucilata mentre i due si sfidavano in strada. E anche l’intera vicenda si fonda su un dualismo irrisolvibile: da una parte la legge del vecchio West, cioè la giustizia fai-da-te che si basa sull’uso delle armi, e dall’altra la legge della società civile, che si basa sui codici e sul diritto. Due visioni diametralmente opposte del modo di intendere il consesso civile e la vita stessa, due visioni per le quali John Ford sceglie – non a caso – due fra gli attori più rappresentativi del cinema western: il rude John Wayne nel ruolo del pistolero, e il mansueto James Stewart nei panni del procuratore legale.
Non è azzardato sostenere che L’uomo che uccise Liberty Valance sia il primo grande epitaffio funebre del mito del West, ed è curioso come sia proprio Ford – l’incarnazione apollinea del genere western, colui che rappresenta “il” western americano per eccellenza – a metterlo in scena. John Wayne – l’attore più rappresentativo dell’epica fordiana, da Ombre rosse e Il massacro di Fort Apache a Sentieri selvaggi – interpreta un po’ il ruolo che da sempre gli è stato cucito addosso, cioè l’eroe del West, il pistolero, l’uomo che usa la pistola e si fa giustizia da sé, e che incarna poi la mitologia stessa della Frontiera. Una mitologia a cui si oppone l’avanzare della società civile, quella delle città dell’Est, dove è la legge dei libri e dei tribunali a regolare le diatribe, e alla quale dà volto il timido e impacciato James Stewart, ingenuo nella sua convinzione di poter sfidare Liberty Valance con il codice penale. La rivalità tra Stoddard e Doniphon non è significativa tanto dal punto di vista individuale per l’amore di Hallie (Vera Miles), quanto soprattutto da quello sociologico e ideologico, per i valori diversi che incarnano: l’arrivo di James Stewart nel selvaggio West, che è il regno di John Wayne ma anche del bandito Liberty Valance (a cui dà vita un sadico Lee Marvin, armato di pistola e frusta), rappresenta l’avanzare della civiltà e del progresso, a discapito di un mondo che sta nostalgicamente scomparendo, e di un genere (il western) che si sta trasformando in qualcosa di crepuscolare e diverso da ciò che era prima. L’uomo che uccise Liberty Valance è il cinema western che riflette su sé stesso, e la conclusione è amarissima: il procuratore legale, l’uomo dell’epoca moderna – colui che ha basato la sua popolarità e quindi la sua carriera politica su una menzogna – diventa una celebrità rispettata, mentre il pistolero, l’uomo del vecchio West, muore da solo e dimenticato da tutti; il vecchio eroe e il vecchio mondo muoiono, per lasciare spazio a quelli nuovi, con una marcata componente di tristezza e nostalgia.
Come sempre nel cinema di John Ford, la vicenda è narrata in modo magistrale, con una regia ancora oggi da studiare nelle scuole: una storia (anti)epica di ampio respiro, nostalgica, elegiaca e appassionante, ricca di sequenze e personaggi memorabili come il maestro ci aveva abituati fin dai tempi di Ombre rosse e Sfida infernale (senza dimenticare gli altri generi frequentati, come il war-movie e il dramma). L’espediente narrativo utilizzato è quello del flashback, che occupa la maggior parte del film tranne l’inizio e la fine, per cui tutta la storia è narrata secondo la prospettiva di Ransom Stoddard, il quale – pur conoscendo la verità per bocca di Doniphon – fece finta di niente e lasciò che la propria carriera fosse basata su un merito non suo. John Ford, a differenza degli altri suoi western, rinuncia ad ambientare il film negli spazi sconfinati della Monument Valley (ma proprio perché L’uomo che uccise Liberty Valance non è un western come gli altri), girando soprattutto negli interni e nella cittadina ricostruita dell’immaginaria Shinbone, con un bianco e nero degno di un noir, e accompagnando la storia con una colonna sonora non insistita ma pregna di malinconia. Sullo sfondo, mentre i banditi imperversano e il pavido sceriffo sta a guardare, ci sono le lotte di potere fra allevatori e contadini, l’attività del giornalista (Edmond O’Brien) che dirige lo Shinbone Star, e la modernità che inizia a fare breccia con i cittadini che eleggono i loro rappresentanti per lo Stato: da qui all’altrettanto leggendario e crepuscolare C’era una volta il West (1968) di Sergio Leone, il passo è breve.