Fondatore di una scuola di cinema in patria (dove il termine “scuola” è da intendersi sia a livello teorico che pratico), il belga André Delvaux è stato uno dei più importanti innovatori del linguaggio cinematografico in Europa a partire dagli anni Sessanta, in quella che è a tutti gli effetti da considerarsi una Nouvelle Vague belga. E il riferimento a questo movimento culturale calza a pennello, poiché Delvaux collaborò spesso a livello cinematografico con la Francia, e molti fra i suoi studenti e tecnici erano francesi.
Fattosi le ossa sul campo, tra documentari e film per la televisione, il regista diresse il suo primo lungometraggio nel 1965: L’uomo dal cranio rasato, un capolavoro del cinema d’avanguardia, nonché uno tra i suoi film più famosi e significativi. Un film lento e complesso ma affascinante, un’opera di rottura – nel senso che rompe con la narrazione tradizionale – paragonabile per certi versi a un altro pilastro rivoluzionario del cinema sperimentale come L’anno scorso a Marienbad (1961), di Alain Resnais: e, proprio come questo, fu accolto con entusiasmo dalla critica, vincendo vari premi, ma in modo più freddo e distaccato dal pubblico, che gli imputava un’eccessiva cripticità.
L’uomo dal cranio rasato è tratto dall’omonimo romanzo di Johan Daisne, scrittore e saggista belga di cui Delvaux traspose in seguito anche un’altra opera letteraria con il film Una sera, un treno. Protagonista è Govert Miereveld (Senne Rouffaer), un avvocato e insegnante che vive in una cittadina del Belgio, sposato e con due figli, e che si innamora di Fran (Beata Tyszkiewicz), una sua studentessa, senza però trovare il coraggio di dichiararsi. Dopo la fine della scuola, i due si perdono di vista, ma l’uomo continua a struggersi per la passione e per il rimpianto di non aver osato rivelare il suo amore. Tempo dopo, quando Govert è diventato cancelliere presso il tribunale, viene invitato da un medico legale a recarsi con lui in un viaggio verso un’altra località, dove deve eseguire un’autopsia.
Il nevrotico avvocato assiste con orrore alla scena, poi in albergo incontra di nuovo Fran, la quale gli rivela di essere stata l’amante di un suo collega ai tempi della scuola, e di essere diventata un’attrice che conduce una vita dissoluta. Govert è sconvolto da queste rivelazioni, e in un raptus di follia la uccide con un colpo di pistola. Internato in una clinica psichiatrica, durante la proiezione di un notiziario rivede Fran, e cade così in preda a congetture paranoiche, chiedendosi se l’abbia uccisa veramente o se invece la donna sia ancora viva.
Il film è effettivamente ermetico, poiché la narrazione lenta, lo stile sperimentale e i temi trattati lo rendono un’opera complessa, ma al contempo imprescindibile per ogni cinefilo: è un film di pura avanguardia, un cinema innovativo e assolutamente consapevole di questo, nonché un esperimento meta-linguistico che prende il linguaggio cinematografico tradizionale e lo scardina – un po’ come facevano in Francia, mutatis mutandis, autori come Alain Resnais, François Truffaut e Jean-Luc Godard (che non a caso è un grande ammiratore di Delvaux). Quella del regista belga non è infatti un’operazione solitaria, poiché in quegli anni soffiava un po’ in tutta Europa un’aria di cambiamento, una voglia di svecchiare il cinema che pochi anni dopo sarebbe confluita anche in Germania con registi come Rainer Werner Fassbinder, Werner Herzog e Wim Wenders.
In quegli anni muoveva i suoi primi passi, tra Francia e Polonia, anche Roman Polanski, uno dei più grandi registi in grado di trasporre nel cinema la pazzia e la paranoia: Repulsion nasce lo stesso anno del primo film di Delvaux, ed è affascinante pensare a una reciproca confluenza fra lo stile e le modalità narrative dei due registi. L’uomo dal cranio rasato è imbevuto anche di un coltissimo sostrato letterario, più o meno diretto, dalla filiazione originale col romanziere Johan Daisne a un coté che fa pensare a Franz Kafka, il quale già tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento mostrava un gusto particolare per la messa in scena dell’assurdo e del surreale.
Del resto, il personaggio incarnato dall’espressione apatica di Senne Rouffaer è squisitamente moderno: è quella figura alienata, tormentata, nevrotica e oppressa che Robert Musil definiva nel 1943 “uomo senza qualità”, costantemente alla ricerca di sé stesso e della propria identità, precursore di successivi personaggi cinematografici che smarriscono il loro “io”, come quelli di Despair di Fassbinder o del Mr. Klein di Joseph Losey. Ne L’uomo dal cranio rasato, forma e contenuto formano un tutt’uno, e allo stile asciutto e minimalista fa da contrappunto una narrazione metafisica e surreale, o meglio una narrazione che passa continuamente dal concreto all’astratto e viceversa, ponendo numerosi, cruciali e irrisolvibili quesiti sulla vita e sull’essere umano: attraverso i dialoghi, secchi e profondi, si passano in rassegna varie teorie filosofiche (per esempio il materialismo del medico legale), ci si chiede dove si trovi l’anima e cosa ci sia dopo la morte, passando attraverso il concetto di bellezza come potenza distruttrice, oppure trattando la pazzia e la ricerca dell’identità personale.
Particolarmente illuminante è una teoria dello studioso Michel Ciment, il quale ha paragonato il film di Delvaux ai quadri di Magritte, per “l’irruzione permanente del mistero nella quotidianità, la fusione dell’astratto e del concreto, del razionale e dell’irrazionale”. Il bianco e nero particolarmente luminoso, le scenografie spesso geometriche e quasi kafkiane in cui il protagonista si perde – dalla scuola all’albergo, fino al delirante finale nella clinica psichiatrica – il ritmo volutamente lento, il minimalismo della messa in scena, le musiche anch’esse ridotte all’osso, tutto ciò immerge lo spettatore in un’atmosfera metafisica e rarefatta, dove l’assurdo pare sempre sul punto di esplodere (anche nelle situazioni più materiali e impensabili) – e vari critici hanno parlato, a proposito di Govert, di un “realismo magico”, un ossimoro solo apparente visto che ci troviamo in un territorio che esula dalla realtà vera e propria. E l’effetto di straniamento è tanto maggiore nella misura in cui Delvaux sceglie di rappresentare la storia interamente dal punto di vista del protagonista, confondendo così – soprattutto nella parte conclusiva – la realtà e l’immaginazione, come fa Polanski, e come farà ancora Delvaux per esempio nel suddetto Una sera, un treno, in Belle e in Rendez-vous à Bray.
La regia insiste sui primi piani allucinati dei protagonisti (eccellente anche la Tyszkiewicz, rinomata attrice polacca), e numerose sono le scene suggestive, in cui si manifesta il gusto di Delvaux per il surreale: dalla premiazione di fine anno scolastico, dove tutto è giocato sulle espressioni dei volti, e in cui Govert sembra invocare magicamente lo sguardo di Fran, alle inquadrature apparentemente insignificanti in cui il protagonista si fa tagliare i capelli dal barbiere; dalla lunga scena dell’autopsia nel cimitero alle sequenze conclusive, quelle cioè che vanno dall’omicidio in albergo all’internamento in manicomio, fino alla comparsa quasi hitchcockiana della “nuova” Fran sullo schermo, che proietta completamente Govert nella follia.
Particolarmente esemplificativa è la scena dell’autopsia, in cui Delvaux non mostra praticamente niente (si intravede solo il cranio), limitandosi a far vedere i due medici che operano all’interno della bara con i loro strumenti, e confermando quell’attenzione per gli oggetti e i rumori – in contrasto con i suoni bucolici della natura – che avevamo già visto ad esempio nella scena del barbiere. Quello di Delvaux è un modo di fare cinema assolutamente sperimentale e avanti coi tempi, e che – oggi più che mai – c’è bisogno di vedere e studiare.