“Voglio che mi fai paura” dice la postina, attratta dall’apparente mostruosità di Raphaël, un gigante buono dal volto di Raphaël Thiéry, le cui fattezze (che Yorgos Lanthimos aveva reso grottesche e repellenti) si fanno paesaggio da ammirare ed esplorare. C’è chi si eccita all’idea di essere violentata tra i boschi dall’orco cattivo e chi invece osserva con curiosità e con dolcezza l’animo delicato che traspare da quel solitario occhio azzurro.

In una notte piovosa, questo “golem d’argilla” accoglie l’artista Garance Chaptel (Emanuelle Devos), rientrata inaspettatamente al maniero di famiglia. L’incontro tra i due è immediatamente arte e quindi amore. L’artista moribonda, sofferente, sperduta, ritrova la materia che le consente di creare e di amare.

Anaïs Tellenne, qui al suo primo lungometraggio, gira quasi una fiaba, con tanto di castello incantato, principessa e “mostro”, che in realtà è un principe. Come Quasimodo che suonava la campane, Raphaël suona la sua cornamusa, onorando la sua “Esmeralda”, che l’ha guardato come mai nessuno aveva fatto prima.

I teneri tentativi da innamorato, di abbellirsi, sistemarsi, adornarsi, per la sua madame sono vacui di fronte alla magia che già è avvenuta. Lo sguardo di lei era già penetrato tra le sue rughe, le mani nodose, il sudore, le pieghe del suo corpo, e persino nella pudica benda che nasconde la palpebra vuota. Già messo a nudo ancora prima di spogliarsi, Raphaël è l’argilla che lei aspettava di plasmare, l’incontro necessario alla creazione, il canone da ribaltare, l’estetica da distruggere.

Ogni tocco umido delle mani, che modellano la massa inerte di argilla, è un atto mancato, la scoperta di un corpo, un orgasmo taciuto, una ricerca di bellezza lì dove non si pensava di trovarla. “Perché non sono fatto di pietra come te?”, diceva il Quasimodo di Charles Laughton al gargoyle di Notre Dame, nel finale del film del 1939. Raphaël osserva le mani di lei toccare il suo doppio d’argilla, sognando di poterne prendere il posto e farsi arte lui stesso.

Come Pigmalione, Garance anima la sua statua per poi giacere con lei. Il confine è superato, non vi è più brutto o bello: c’è solo eros che travalica ogni convenzione estetica, riuscendo a cogliere ciò che sfugge allo sguardo comune, che sta dietro, nascosto, timido, pudico, ritirato, arroccato nelle profondità dell’animo di ciascuno di noi.

Come Fellini con le sue veneri primitive dalle forme prosperose e strabordanti, così Tellenne, attraverso lo sguardo di Garance, osserva il corpo mastodontico di Raphaël, carico di una sessualità ancestrale, rozza, primordiale, le cui erezioni saranno dedicate ad una solo persona, una volta conosciuto l’amore. L’incantesimo viene rotto solo dall’arrivo di terzi, intrusi, ficcanaso, rappresentanti del mercato, del vile danaro, del giornalismo e della pubblicità, pronti ad accaparrarsi un pezzo d’intimità, costruita con dedizione e fatica, per esporla al mondo.

“Non è un pensatore, è un sognatore”: così viene descritta la scultura, testimone dell’incontro erotico tra la materia e l’artista. Bisogna permettersi di sognare per fare l’amore con un letto vuoto; per essere adolescenti a sessant’anni; per sentire lo stomaco che si stringe, che si contorce; per darsi nelle mani dell’altro e farsi toccare, modellare, scolpire, sporcare, scoprire. Per poter amare, creare vivere, desiderare, abbiamo il dovere di sognare e di esplorare paesaggi “mutevoli e accidentati”.

L’arte, sembra dirci la regista, non è altro che un incontro d’amore.