Trent'anni di relazione fra Leonard Bernstein e la moglie Felicia Montealegre Cohn, fra il primo incontro negli anni '40 e la morte prematura di lei alla fine dei '70, rimembrati dal grande compositore e direttore d'orchestra ormai anziano. Un felice/infelice incontro di due anime fatte l'una per l'altra, con in mezzo il non piccolo inconveniente che Bernstein fosse, di nascosto dal grande pubblico, omosessuale. Questo è, in buona sostanza, il fulcro di Maestro di Bradley Cooper, anche interprete nel ruolo principale con un naso posticcio che gli ha causato zelantissime quanto ridicole accuse di antisemitismo.

Giunto all'opera seconda dopo A Star Is Born (2018), altro film sui difficili compromessi con la celebrità, Cooper apre il suo film con un piano sequenza vertiginoso e impossibile, a dimostrazione immediata del suo slancio registico, per proseguire con un montaggio brioso condotto sulla colonna sonora rigorosamente bernsteiniana, e infine adagiarsi in un comodo melò, lasciando l'impressione che si tratti di quello che avrebbe avuto voglia di fare sin dall'inizio.

Fra bianco e nero e colore, svariate grane e livelli di saturazione (fotografia di Matthew Libatique), Maestro attraversa decenni di storia durante i quali Bernstein, che ambiva a diventare “il primo grande direttore d'orchestra americano”, poteva sì avere il coraggio di opporsi a chi voleva occultare le sue origini ebree trasformando il suo cognome in Burns, ma non vivere liberamente la propria omosessualità. Un'omosessualità accettata in maniera pacifica nel suo ambiente artistico, ma non presso la grande ribalta internazionale dove la stabilità matrimoniale risultava imprescindibile.

Vediamo così nascere il rapporto fra Lenny e Felicia su un'ambiguità di fondo, fra la necessità di una relazione eterosessuale per lui, come da consiglio degli amici, e un'evidente profonda sintonia e fascinazione fra i due. Come Lenny racconta in una scena a chi gli chiede cosa si senta di essere maggiormente, in lui coesistono due anime: quella di compositore e quella di direttore d'orchestra. Il primo lavora tranquillo a casa, nella sua stanza, il secondo è fatto per andare nel mondo, dove si trovano gli incontri e gli imprevisti.

Non possiamo negare di trovarci al cospetto di una storia d'amore, ma di quelle portate in scena appositamente per allargare e mettere in discussione il nostro concetto di storia d'amore (che però “I love you” possa voler dire sia “Ti amo” che “Ti voglio bene”, in effetti semplifica parecchio la questione). Con una certa lucidità, la sceneggiatura di Cooper e Josh Singer è sviluppata per non fare evolvere il personaggio di Felicia né in una vittima rassegnata, né in un'antagonista rabbiosa, né in una spettatrice compiacente e compiaciuta del proprio status sociale. Allo stesso tempo, però, la sua transizione da ragazza piena di vivacità a donna di mezza età pietrificata dagli eventi resta senza argomentazione, salvata solamente dalla dolente umanità di Carey Mulligan.

Più intento a essere non banale che davvero originale, Maestro non è quindi la storia di un grande musicista – delle cui creazioni è infuso tutto il film, senza ci venga detto nulla del loro processo creativo – ma la storia di un matrimonio: sviluppare un biopic attorno alla sfera privata è una tendenza dominante del cinema contemporaneo (pensiamo a Napoleon di Ridley Scott) e, non a caso, perfettamente mimetica della celebrity culture odierna, del modo in cui i famosi si raccontano ai comuni mortali su Instagram.