Zendaya e John David Washington nei panni di una giovane coppia furiosa tra le mura (e le ampie finestre) della notevole Caterpillar House di Carmel, immersi nel paesaggio campestre di una California inedita che trova ogni pretesto per intromettersi nella scena. Lui, un filmmaker su di giri, galvanizzato dopo la prima assoluta del suo film (in cui si è dimenticato di ringraziare la sua compagna e musa) e lei, elegante e meditabonda, dentro l’iconico abito da sera mentre gli prepara un agrodolce mac and cheese, covando un pericolosissimo silenzio che aspetta solo di essere detonato.
Sono questi i presupposti di Malcolm & Marie, uscito su Netflix, una pellicola che non teme di collocare immediatamente le sue premesse estetiche in un terreno nostalgico e cinefilo, con i suoi lunghi titoli di testa, come si faceva fino a quarant’anni fa, e il bianco e nero nei 35mm di Marcell Rév. Lo stesso direttore della fotografia che con Sam Levinson, sceneggiatore e regista del film, ha lavorato in Euphoria, apprezzata serie HBO che a partire dal 2019 ha confermato il grande talento e la potenzialità divistica di Zendaya.
Malcolm si versa da bere, mentre Down And Out In New York City di James Brown inaugura una ricca playlist che sarà l’accompagnamento eclettico e trasversale del crescendo di tensioni. Così, mentre il soul di William Bell dialoga con i brani scanzonati di Dionne Warwick, emergono i non detti della giovane coppia, in un litigio ondivago ed estenuante consumato tra accanimenti, armistizi e nuove improvvise esplosioni.
Un amore tossico ma fotogenico che si presta per enucleare i temi di una riflessione ben diversa da quella che riguarda il più nobile dei sentimenti: Malcolm & Marie parla di riconoscimento e inventiva, racconta i meccanismi del processo creativo, le sue implicazioni e gli effetti indesiderati, creando un bizzarro gioco di specchi e rimandi tra il mondo diegetico di Malcolm e quello biografico e produttivo di Sam Levinson. In entrambi i casi infatti verrebbe da chiedersi quando l’ispirazione e l’empatia danno luogo a un’appropriazione indebita.
Il rapporto di coppia è indagato nel binomio poco gratificante di artista e musa, come se la & commerciale tra Malcolm e Marie stesse a indicare un un’unione in affari piuttosto che un legame sentimentale, in cui il primo mantiene una posizione di potere e la seconda si trova relegata dietro le quinte, indebitamente espropriata della sua storia e senza un riconoscimento.
A un livello più profondo si avverte uno stridore evidente, provocato da un regista bianco e figlio d’arte che propone un punto di vista sulla critica cinematografica e sull’establishment hollywoodiano, di cui fa parte, tramite le parole di un personaggio afroamericano. Levinson, che non cela le aderenze tra la sua biografia e il personaggio di Malcolm, è consapevole di questa contraddizione, e sembra riconoscere la portata della provocazione che sta offrendo. Inscena così un caleidoscopio di contraddittori, come se i monologhi metanarrativi fossero un’arringa e l’interesse sia quello di anticipare ed evadere qualsiasi obiezione nella ricerca di un’assoluzione. Di certo non c’è spazio per l’indulgenza nei confronti di Malcolm, che vede ogni sua ipocrisia prontamente evidenziata dalle parole caustiche e precise di Marie, appoggiata in veranda con una sigaretta alla bocca.
Intanto l’irresistibile carisma dei due attori si fa carico di una scrittura dall’impianto teatrale in cui l’unità di spazio e tempo è deliberatamente appesantita da monologhi tracotanti e un po’ buffi, spesso simili a comizi, col vizio di essere meno accessibili al largo pubblico, a vantaggio di qualche compiaciuto sfoggio cinefilo. Così in poco meno di due ore si menziona un’impressionante vastità di temi, alcuni molto specifici e altri che incoraggiano una facile identificazione — l’amore di coppia, l’egoismo, la vanità, il razzismo, gli stereotipi, la cinefilia, la politica — sebbene l’interrogativo più appassionante resti uno: qual è il limite tra rappresentazione e appropriazione?
Levinson è il primo a sollevare a parole questa incertezza, ma la risposta non è chiara. Verrebbe da chiedersi se un film sia il luogo giusto per parlare di certi temi, piuttosto che mostrarli.