Nel suo Dizionario dei film, Morando Morandini notava nella descrizione di Suspiria come “il disinteresse di Argento per la logica narrativa” fosse lì “macroscopico, programmatico”: come già per altri film di Argento, quali Phenomena, Inferno e 4 mosche di velluto grigio, Morandini contestava al regista la scelta del genere fantastico come scorciatoia per aggirare la necessità di una coerenza interna e verosimile del racconto, e giudicava questa mancanza come il sintomo di un autocompiacimento narcisistico da parte di Argento.

Al di là del giudizio di valore nei confronti del regista, il commento icastico di Morandini potrebbe tornare utile per parlare di Megalopolis, il nuovo film di Francis Ford Coppola. La pellicola – che vede finalmente la luce dopo una gestazione di più di vent’anni ed è stata finanziata in gran parte dallo stesso Coppola, per mancanza di investitori – si è presentata sin dalla sua anteprima al Festival di Cannes come barocca e caotica per alcuni, immaginifica e rivoluzionaria per altri.

Definito – giustamente – come un film-testamento del regista, Megalopolis racconta di Caesar Catilina (Adam Driver), architetto in grado di fermare il tempo e inventore di un nuovo elemento chiamato “megalon”. In una New York ribattezzata New Rome, Catilina vuole usare il megalon per ricostruire la città da zero e creare Megalopolis, una metropoli in cui tutti possano raggiungere il loro pieno potenziale.

Il progetto è però osteggiato da Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito), che rappresenta l’incubo numero uno di Catilina per tre motivi: è il sindaco di New Rome, fu a suo tempo il procuratore incaricato di indagare sulla morte sospetta dell’ex moglie di Caesar ed è il padre di Julia (Nathalie Emmanuel), di cui il protagonista finirà per innamorarsi.

L’incubo numero due che si frappone tra l’utopia di Catilina e la sua realizzazione è la giornalista Wow Platinum (Aubrey Plaza), ex amante di Caesar e determinata a osteggiarlo, poiché non può averlo solo per sé. Il terzo incubo, infine, è il cugino dell’architetto, Clodio Pulcher (interpretato da uno Shia LaBeouf che, per restare nell’ambito della fantastoria latina, ricorda vagamente il Commodo di Joaquin Phoenix ne Il Gladiatore quanto a squilibrio e depravazione).

Il motivo per cui Clodio odi Catilina non è del tutto chiaro, al di là del parallelo storico con la congiura del 63 a.C.; ma Clodio odia profondamente suo cugino, al punto da ordire congiure machiavelliche con Wow per screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica, tagliargli i fondi e salire al potere come il nuovo astro politico di New Rome. Le difficoltà di Catilina, insomma, sono molto simili a quelle affrontate da Coppola: un artista geniale con una visione utopica costosa viene osteggiato da chiunque, fino al punto di doversi finanziare da solo per portare a compimento la propria visione.

In un caleidoscopio che unisce giochi di potere, esperienza personale, critica sociale e allegoria del processo artistico, il disinteresse di Coppola per la logica narrativa diventa quasi, per l’appunto, macro-strutturale, finendo per sfociare in una giustapposizione di suggestioni. Megalopolis sembra insomma essere un’opera così fortemente voluta e a lungo pensata da finire per essere riempita di tantissimi elementi differenti, nel tentativo di lanciare un grido di allarme globale sullo stato della civiltà umana e sulle relative responsabilità dell’arte. In questo vortice di idee, diverse sottotrame sono aperte e mai richiuse, molti i dialoghi stranianti, svariati gli espedienti surreali e illogici anche nell’economia dell’universo fantastico, tra non sequitur e citazioni dal traballante valore diegetico.

Il film, però, impone anche e soprattutto una riflessione sulle somiglianze tra passato e presente – vale a dire, tra la corruzione dilagante nelle ultime fasi della Repubblica romana e l’America di oggi, già in mano a pochi che decidono per tutti. Come ha osservato lo stesso Coppola, “Megalopolis propone un interrogativo fondamentale: la società in cui viviamo è davvero l'unica alternativa possibile per noi?”. La Storia racconta, aggiunge il regista, che Catilina perse e fu ucciso, mentre Cicerone sopravvisse. Ma se è il vincitore a raccontare la storia, obietta, come possiamo sapere che ciò che Catilina aveva in mente per la nuova società non fosse un riassetto di coloro che detenevano il potere?

L’idea che la Storia sia scritta dai vincitori e che la rottura di questa continuità narrativa possa avvenire solo attraverso la sovversione del potere è tracciabile a Walter Benjamin, che del resto aderiva a una prospettiva più materialista e filo-marxista della storia; per il filosofo, quindi, la rivoluzione popolare avrebbe dovuto portare non tanto a un’utopia futura, quanto a una riparazione dei torti subiti in passato.

In Megalopolis, invece, il compito di farsi le domande giuste nella prospettiva di un domani migliore è comunque affidato ad una élite, dal momento che Caesar fa parte dell’upper class dirigente che ha contribuito alla rovina di New Rome e Julia, che sposa la sua causa, è figlia del sindaco. Non solo: convinto che sia nell’interesse della collettività, Catilina impone di fatto a New Rome la propria rivoluzione urbana, disinteressandosi delle vittime collaterali.

Fugace è allora lo sguardo della macchina da presa sugli sfollati degli edifici che l’architetto fa implodere per poterli ricostruire, e relegate sullo sfondo sono le conseguenze negative su una popolazione, viene ribadito in più punti, già provata e impoverita.

Il risultato è una tensione verso un’utopia elitaria, condannata a un eterno ritorno del ciclo di lotta per il potere, corruzione e dispotismo: se farsi le domande e darsi le risposte è il lusso di una oligarchia, la Megalopolis del futuro è davvero un’utopia per tutti? Caesar Catilina, pronto a fermare il tempo con uno schiocco delle dita, sembra essere convinto di sì.