Dal punto di vista iconografico l'occhio ha sempre rivestito un ruolo di spicco all'interno della testualità cinematografica. Qualunque cinefilo, sin dalla notte dei tempi, balza sull'attenti quando vede sullo schermo un occhio in movimento. Sguardi in camera, sguardi specchiati, sguardi lacerati: se il cinema è il dominio dello sguardo, quella dell’occhio è la mostrazione più auto-riflessiva che ci sia. Superfluo citare qualche illustre esempio: dall'occhio lacerato di Luis Buñuel (Un chien andalou, 1929) a quello strappato o cieco di Fulci (... E tu vivrai nel terrore! L'aldilà, 1981), dall'occhio che apre e genera il racconto per poi chiuderlo (è il caso del serial Lost, 2004-2010) all'occhio che riflette il mondo di Ridley Scott o che viene replicato (Blade Runner, 1982). Metafore della visione: la esemplificano, ne sondano i limiti, ne frustrano le possibilità.
Cosa ne è della centralità dell'occhio quando dal dominio cinematografico ci si sposta a quello virtuale, quando si prende in considerazione il medium videoludico? Alcuni penseranno alla celebre sezione in cui il protagonista dell'avventura horror Dead Space 2 (Visceral Games, 2011) si opera l'iride col supporto di un macchinario, sostenendo che, saltuariamente, la centralità dello sguardo venga ribadita anche nella testualità virtuale. Circoscriviamo però questo esempio specifico – nient'altro che una citazione desunta direttamente dall'ambito cinematografico – e sosteniamo invece quello che a tutti gli effetti ci sembra un defilamento dello sguardo in ambito videoludico: una scomparsa di “metafore della visione” e una preponderanza, più evidente che mai, di quelle che chiameremmo “metafore dell'azione”.
Anziché occhi, nei videogiochi si mostrano più spesso corpi. Più nello specifico, mani: il tramite che innesta l’agire del giocatore (agency) nel mondo digitale. Quando il tono si fa orrorifico queste si infilano nei pertugi più oscuri e lugubri: è il caso di Silent Hill 2 (Konami, 2001) e della sequenza in cui il protagonista recupera una chiave in una fessura nel muro all'interno del quale si agitano sinistre presenze. In altri casi vengono addirittura mutilate: in Resident Evil 7: Biohazard (Capcom, 2017) assistiamo costantemente a mutilazioni, rotture, ferite, addirittura amputazioni delle mani dell’avatar, che al termine dell'avventura si riducono a un guazzabuglio di cuciture e tumefazioni, liquami secchi e sangue. Lo stesso accade in Outlast (Red Barrels, 2013) o in Until Dawn (Supermassive Games, 2015), entrambi titoli che focalizzano intere scene su mutilazioni di mani o dita. La retorica horror ci consente di chiarire come queste metafore dell'azione si riflettano sul rapporto che lega l'utente al testo: vediamo il nostro avatar immobilizzato, legato, incapace di agire, vittima impotente degli eventi; nel momento in cui le sue mani sono bloccate e mutilate, la sua impotenza diviene la nostra. L'incapacità di agire si ripercuote sui veicoli della nostra capacità manipolatoria: le mani che, da un punto di vista archetipico, ci consentono di aprire porte e raccogliere chiavi, di tirare leve e impugnare armi. Se la peculiarità del videogioco è la manipolazione dell'ambiente interattivo, mortificare il corpo che agisce su di esso è di per sé un atto meta-testuale: quando lo si sperimenta si balza sull'attenti esattamente come dinnanzi a un occhio cinematografico.
La metafora dell'azione (che potremmo dire “metafora dell'agentività”) non si esaurisce di certo con le mutilazioni: essa diviene l'esempio della determinazione che spinge il giocatore, forza cieca e completista, a procedere all’interno di un racconto sempre più ambiguo e opprimente. È il caso di BioShock (Irrational Games, 2007), in cui accompagniamo il protagonista verso la distruzione del proprio corpo col solo scopo di proseguire verso il finale. O ancora, il caso dell'universo sintetico e semplificato di The Binding of Isaac (Edmund McMillen, Florian Himsl, 2011), in cui il bambino protagonista si potenzia tramite oggetti che, generalmente, ne martoriano le carni: una stampella che gli si conficca in testa, un occhio che gli si rovescia, una frusta che gli strappa lembi di pelle.
Al di là delle mutazioni fisiche, si parla anche di una vera e propria centralità diegetica della corporalità. Che al suo centro si trovi un corpo proibito come quello di Samus Aran nella serie Metroid (Nintendo, 1986-2017) o un corpo nascosto come quello dei non-morti maledetti di Dark Souls (FromSoftware, 2011), un corpo mutante come in Prototype (Radical Entertainment, 2009) o uno procace e progressivamente disvelato, oggetto del desiderio consapevole e a tratti autoironico come quello di Bayonetta (Platinum Games, 2009).
Dalla riproposizione quasi ossessiva dell'atto dell’osservare, interna a un dominio in cui non si fa che vedere, sprofondiamo in un'attenzione maniacale per l'azione e per la capacità di compiere gesti: dalla centralità dell'occhio alla centralità, attiva e agente, del corpo e delle mani dell'avatar. Un panorama iconografico, quello videoludico, che non può prescindere dall'attraversare la carne: all'interno dell'immagine (e dell'immaginario) virtuale essa diviene un fulcro concettuale. In esso si sintetizzano e sublimano le funzioni e le capacità del fruitore.