Quasi ossessionati dal nuovo restauro di Metropolis, noi di Cinefilia Ritrovata continuiamo a postare contenuti sul film, questa volta chiedendo a due collaboratori una propria lettura del film, con occhi contemporanei e attenti ai particolari. A seguire:

Eccellente ed irritante. Sono in effetti – come osserva Luis Buñuel – i due poli fra i quali anche io ho oscillato durante la visione di Metropolis. E se il messaggio del film – il cuore che deve fare da mediatore tra braccia e mente – scivola pericolosamente verso derive moraleggianti, Lang ci sorprende con le sue immagini potenti e visionarie, con scene che faticheremo a dimenticare o che riconosciamo come già intraviste altrove. In modo quasi paradossale Metropolis potrebbe essere il film meno visto nella sua versione originale – dopo la prima di Berlino nel gennaio 1927 già la versione americana proiettata pochi mesi dopo a New York risultava fortemente ridotta e quasi irriconoscibile – eppure tra i più visibili e presenti nell’immaginario cinematografico e artistico. Basta spostarsi a relativamente pochi anni fa, al decennio ’80-‘90, per rintracciare numerosi echi di Metropolis: nella cupa città di Blade Runner e nei suoi replicanti, nell’uomo-robot di Terminator, nello scienziato di Ritorno al Futuro, nel dio che si nutre di sacrifici umani e nelle incursioni nelle catacombe cristiane di Indiana Jones. Spostandoci dal cinema alla musica troviamo il video della hit Radio GaGa dei Queen e le colonne sonore di adattamenti di Metropolis ad opera di Giorgio Moroder (per cui Freddie Mercury scrisse Love Kills) e, qualche anno più tardi, di Philip Glass. Ma gli esempi potrebbero essere probabilmente infiniti.

Personalmente, della mia visione di Metropolis, nell’ultima versione restaurata e proiettata dalla Cineteca di Bologna nell’ambito della rassegna “Il cinema ritrovato. Al cinema”, rimangono indelebili alcune scene al femminile. Su tutte, il primo piano di un battito di ciglia, di un occhio che si riapre in un tempo sfasato rispetto all’altro, e ci fissa in modo ipnotico, umano e disumano al tempo stesso, quando Maria, la virginale protagonista del film, dopo esser stata sottoposta ad un esperimento dello scienziato Rotwag, si trasforma in robot, dando vita al suo doppio, alla versione cattiva di sé: la strega. Con questo escamotage Lang costruisce un gioco di specchi alternando, sotto la stessa identità visiva, vittima e carnefice, bontà e malvagità femminina. Brigitte Helm riesce così a dare vita, attraverso Maria, ad alcune delle scene più belle di Metropolis. Da vittima fugge nelle catacombe, inseguita dalla luce che Rotwag le punta addosso in modo intermittente. Un inseguimento talmente moderno, claustrofobico e ossessionante da ricordarci più di una disperata fuga femminile, da Hitchcock agli innumerevoli film di serial killer. Da strega invece Maria-robot ci regala il ballo a Yoshiwara: sensuale e orrifico, con espliciti rimandi all’Apocalisse ma anche a riti tribali ed evocazioni vampiresche. Ed anche una piccola scena minore mi si è stampata in memoria: quella in cui la macchina che sta trasportando un operaio incrocia per pochi secondi quella che ospita un’elegante donna – una prostituta probabilmente – intenta a rifarsi il trucco. L’operaio, stregato dalla bellezza di questa visione, cambierà destinazione e programmi provocando qualche disguido. Un cuore che dimentica i compiti da mediatore e ci introduce a temi interessanti.

(Lorenza Govoni)

Ma come si fa a vedere oggi Metropolis, direte voi, un film muto in bianco e nero del 1927 dove la comprensione dei pochi dialoghi è affidata alle didascalie? Come si può in un mondo in cui Michael Bay è arrivato al quarto Transformers, tornare al cinema per vedere il restauro di un’avventura raccontata attraverso silenziosi movimenti? Dove la colonna sonora è una sinfonia, con violini, ottoni e grancasse che caratterizzano i personaggi facendoli danzare come le figurine di un’enorme carillon? Quanto dura poi? Due ore e mezza? Vorreste che chi è cresciuto a pane e dinamismo d’immagine accompagnato da un’incessante logorrea (al punto che oggi i ragazzi spesso preferiscono guardare uno youtuber discutere di un film piuttosto che il film stesso), stia incollato allo schermo per ben due ore e mezza di tutto ciò? E soprattutto perché dovrebbe?

Perché non basta spiegare chi fosse Fritz Lang, l’importanza che ebbe nella storia del cinema o affermare che con Metropolis stiamo parlando di fantascienza prima della fantascienza stessa. Probabilmente servirebbe a poco pure consultare Wikipedia ed evidenziare come Guerre stellari, Blade Runner o Terminator non sarebbero stati gli stessi senza questo film, perché nonostante i reebot e i remake si tratta comunque di prodotti entrati nell’immaginario collettivo contemporaneo più attraverso citazioni e parodie che non attraverso il loro consumo diretto (quello appartiene alle generazioni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta). Per convincere chi oggi quando si parla di fantascienza non sta nella pelle pensando alla possibilità di vedere Spider-Man combattere al fianco degli Avengers, occorre parlare il suo stesso linguaggio. Forse l’unico modo per attirare l’attenzione su una pellicola così distante da noi è provare a cercarla in ciò che a noi è più vicino.

La mia sequenza preferita è quando finalmente ci viene mostrata la città in tutta la sua potenza distopica. I grattacieli infiniti, gli aerei che sfrecciano, le strade volanti, i veicoli e i treni che si muovono ad altezze elevate. In quella manciata di immagini tutto è pensato per restituire la sensazione di un mondo in cui ci si muove sfidando la gravità. In cui l’uomo ha vinto sulla condizione impostagli di dover popolare la Terra ed ha finalmente iniziato, passo dopo passo, a conquistare il regno dei cieli. Una sensazione identica, se non addirittura più inquietante, la si può provare guardando la sigla di Futurama, serie televisiva d’animazione creata da Matt Groening e David X. Cohen. Nel segmento vediamo persone che si spostano da un luogo all’altro della città attraverso speciali condotti, macchine spaziali che pur avendo la possibilità di volare devono rispettare una fila, giganteschi edifici dalle forme bizzarre recanti spot di terribili prodotti. Tutto è orrendo e indesiderabile in questo futuro. La stupidità e l’avidità pare abbiano preso il sopravvento sulle coscienze al punto che non ci si rende conto di essere non solo tristi ma anche ridicoli.

La città del futuro in cui vivono i protagonisti della serie si chiama New New-York, costruita sulle rovine della vecchia New-York, ridotta ad enorme rete fognaria abitata da mutanti. Questi ultimi vivono da emarginati, la loro occupazione consiste nel far funzionare correttamente le tubature. Anche qui abbiamo pertanto un mondo “di sopra” e uno “di sotto” come in Metropolis. Nella puntata La rivolta dei mutanti (S06E12) viene mostrato inoltre un macchinario utilizzato dai mutanti identico a quello con cui lavorano gli operai nel film di Lang. Sempre in questo episodio possiamo notare come la risoluzione dei problemi, il superamento delle diversità e l’accettazione del mondo di sotto da parte di quello di sopra, avvenga anche perché al centro della narrazione (della puntata ma anche dell’intera serie) vi è la storia d’amore tra un umano (Fry) e una mutante (Leela). Probabilmente al vecchio Lang sarebbe piaciuto molto Futurama.

(Brando Sorbini)