In curiosa analogia col destino del suo ultimo protagonista (un eccezionale Robert Pattinson) la carriera di Bong Joon-ho appare ormai chiaramente spaccata in due. Quasi che di Bong ce ne fossero in realtà due diversi: con lo stesso dna, ma abbastanza distanti da giustificare un bilancio separato. L’equilibrio in questo senso è sorprendente - otto film (e venticinque anni esatti dall’esordio nel 2000) che barando solo un po’ si dividono perfettamente in due periodi.
Da un lato il Bong “coreano” della prima metà di carriera, cui va ovviamente aggiunto Parasite (2019). Dall’altro il Bong “internazionale” che va da Snowpiercer (2013) a oggi, ma che a ben vedere aveva i primi semi nel korean blockbuster The Host (2006), dove già entravano l’America, i suoi attori (Paul Lazar) e una dimensione tematico-produttiva decisamente globalista.
È proprio quest’ultimo punto a rendere così affascinante l’evoluzione di Bong, che da enfant prodige dell’ondata sudcoreana anni ‘2000 ha saputo porsi come autore sempre più universale, fino al definitivo sdoganamento in occidente con la mostruosa stagione dei premi di Parasite. In particolare, a Bong è riuscita un’operazione rara anche tra i registi con un percorso simile, che di regola oscillano tra il racconto della cultura d’adozione (le incursioni americane di Ang Lee o Sorrentino) e un localismo potenziato dal nuovo prestigio internazionale.
Tertium non datur - nemmeno in Guadagnino, che di volta in volta (sebbene con sguardo e cast apolidi) racconta pur sempre “l’Italia”, “la Germania” (con tanto di riferimenti storici), più di recente “l’America”. L’unica vera eccezione è rappresentata proprio da Bong Joon-ho. È lui il solo autore contemporaneo in cui la progressiva apertura all’immaginario e al mercato internazionali si sia tradotta in un ripensamento formale che investe il suo cinema a tutti i livelli, portandolo a rivolgerne l’arsenale metaforico (fatto di distopia, satira sociale e feroce critica storica) dal bersaglio local della realtà sudcoreana a quello più global immaginabile: nientemeno che i destini del mondo nella sua interezza.
Di quest’ambizione Mickey 17 è il frutto più estremo. Film sdoppiato, “multiplo”, programmaticamente espanso in ogni direzione (e quindi necessariamente slabbrato, diseguale, ma anche generoso e spericolato come pochi) l’ultimo Bong è un addensato di tutte le tendenze che hanno portato il sudcoreano in direzione di un cinema-mondo irriducibile a qualunque specifico culturale. Una natura che filtra a tutti i livelli, a partire dall’adozione – come già in Snowpiercer e Okja - di archetipi narrativi da Arca di Noè/Torre di Babele, dove sapiens di ogni provenienza e (postumanamente) animali si trovano riuniti all’interno di mondi stilizzati che riproducono le disuguaglianze di quello reale.
Su questo pluralismo culturale va a innestarsi quello della moltiplicazione allegorica, cifra di un cinema che ha sempre usato i generi come fucine d’immagini in grado di fissare il presente storico. Sorta di Forrest Gump post-apocalittico, Mickey sembra a tratti il personaggio time traveller che attraversa fasi cruciali della contemporaneità: sacrificato per trovare l'antidoto a un virus letale (la pandemia); cooptato sulla colonia extramondo di un magnate transumano che fonde insieme Musk e Trump; infine improbabile interprete nelle trattative con una razza aliena senziente e matriarcale, tematizzando ambientalismo e questioni animali da sempre cari a Bong.
Ma la cifra “multipla” di Mickey 17 vale anche a livello di forme cinematografiche, presentandosi come una specie di mega-contenitore fantascientifico che ambisce a riassumere decenni di evoluzioni del genere, con particolare attenzione per gli aspetti distopici e di satira politica. Accanto agli immancabili Alien e Blade Runner (il replicante, il lavoratore spaziale senza diritti) troviamo così la saga di Avatar (l’alieno/nativo alla mercè del colonialismo), Incontri ravvicinati e Arrival (la dimensione linguistica), Starship Troopers (la mostruosità della razza umana arianamente “perfetta” contro l’innocenza dell’alieno insettoide), per arrivare alle declinazioni comico-grottesche di Il dormiglione e Il dottor Stranamore (con Peter Sellers nella più celebre moltiplicazione attoriale della storia del cinema).
L’idea che con tanta carne al fuoco Bong a tratti perda il timone è rispettabile, ma è anche (forse) il prodotto di aspettative non del tutto ben riposte. Se infatti non c’è dubbio che all’occasione il sudcoreano sappia essere narratore limpido e trascinante, è anche vero che a uno sguardo d’insieme i Parasite e Memories of Murder sono più l’eccezione che la regola: concessioni (peraltro parziali) alle norme classiche in una filmografia che più spesso ha amato abbandonarsi a un registro grottesco e surreale, non risparmiando neppure le operazioni su carta più vicine al genere, come il già citato The Host. Malgrado gli Oscar insomma Bong non è un regista hollywoodiano, e sarebbe sbagliato chiedere a Mickey 17 una linearità e concentrazione narrativa che non gli appartengono per vocazione.
Nonostante Bong abbia confermato di aver avuto il final cut, smentendo in parte le voci che parlavano di scontri con la Warner, i rinvii legati agli scioperi hollywoodiani e le reazioni critiche tiepide hanno comunque gettato un’ombra su quello che doveva essere il suo grande ritorno dopo il trionfo di Parasite; un’aria di fallimento cui oggi si somma quello politico delle ultime elezioni Usa, rispetto a cui Mickey 17 si mostra insieme profetico e tragicamente sconfitto dalla storia.
L’incubo in cui il magnate trumpiano si rigenera (“lo vogliono tutti..”) e il futuro auspicato da Bong in cui una donna nera vince le elezioni si sono scambiati di posto. E così, fra le molte letture offerte dal tema dello sdoppiamento (una su tutte l’idea socialista di due corpi distinti ma uniti politicamente dalla memoria condivisa del proprio sfruttamento) la più suggestiva è forse quella "multiversale" di un film che comprende in sé stesso il proprio doppio oscuro.
Un gemello inquietante e maligno in cui non ci riconosciamo, cercando di scongiurarlo in un disperato atto di wishful thinking autoriale. Grazie al quale, suo malgrado, Mickey 17 rimarrà un film fondamentale per capire com’è stato vissuto, sognato e temuto il presente.