Un anonimo pacco passa di mano in mano tra gli sguardi complici e gli accordi segreti dei corrieri, dai piedi della Torre Branca di Parco Sempione fino al Duomo, per poi scendere nelle viscere di una città disincantata e grigia di smog. Il Preludio degli Osanna — un brano disperato, un abisso di cattiveria e tensione — commenta la sequenza iniziale passando in rassegna i volti indimenticabili ed eccentrici di uomini e donne che non vedremo mai più, perché prestissimo saranno uccisi.
Non c’è altra protagonista in quella sequenza al di là di Milano. Niente piazza Gae Aulenti, nessun grattacielo escluso il Pirellone: in Milano Calibro 9, uscito nelle sale cinquant’anni fa, la città è una ferita scoperta, livida di smog, di locali notturni al neon e montagne di ghiaia nella Darsena, col Duomo verdognolo che tende al grigio, proprio come i piccioni che abitano la sua piazza.
Scerbanenco dei milanesi diceva questo, nell’eventualità in cui uno decidesse di morire nella propria vasca da bagno: "Ciascuno può annegare liberamente senza che gli altri gli diano fastidio nel tentativo di salvarlo. È in fondo una forma di delicatezza e di rispetto dell'opinione altrui di morire da sé". Questa riflessione arriva da I milanesi ammazzano al sabato dove si sente, come accade spesso nelle storie di Scerbanenco, una nota di tenerezza verso gli abitanti meneghini, come se appartenessero una specie di natura a sé stante, adattabile ai luoghi ostili e quindi diversissima dalle altre.
In una sorta di determinismo ambientale le storie sulla mala milanese non permettono di raccontare i personaggi senza prima mostrare nel dettaglio i luoghi che abitano. E così le ambientazioni di Scerbanenco prima, e di Fernando Di Leo poi, hanno il pregio di sopravvivere a una Milano che cambia, sovrapponendosi alla topografia di una città nuova e smagliante, che per niente al mondo ora ricorda quella precisa rarefazione di Milano Calibro 9 o la precarietà dei cantieri e degli sfasciacarrozze di La Mala ordina (sempre del 1972, il secondo film della cosiddetta trilogia del milieu) .
Rimane un’eco di quella Milano sguardo maligno di dio, di zucchero e catrame, che partorisce personaggi disperati alle prese con un’ambigua meschinità. Non ci sono buoni o cattivi, ma personaggi cattivi e più cattivi. O meglio, nei limiti delle proprie possibilità, si può decidere di essere cattivi leali o cattivi sleali, e questo si capisce negli occhi azzurri e disillusi di Gastone Moschin e in quelli scuri e impetuosi di Mario Adorf.
I poliziotteschi hanno questo pregio, un dosaggio anarchico di umorismo e violenza, di sesso e tenerezza, così che lo scagnozzo grezzo e senza scrupoli interpretato da Adorf in Milano Calibro 9 diventa Luca Canali, uomo mediocre e tenero nella La Mala ordina. Mediocre perché padre inadeguato e magnaccia a Parco Lambro, umanissimo perché coccola un gattino bianco poco prima del duello finale. Un gattino che non potrà fare a meno di lui, anche quando inizierà la sparatoria. Disperati i momenti in cui Canali, mentre cerca di difendersi, schiva i colpi di pistola e cerca di allontanare il cucciolo dalla pioggia di proiettili. Poco dopo troveremo il gattino esanime: straziante il triangolo di stoffa cucito sul suo dorso per indicare la ferita d’arma da fuoco.