Volendo usare un’espressione forse poco felice, ma in fondo veritiera, possiamo dire che per Joseph Losey l’auto-esilio in Inghilterra è stato un toccasana in quanto a produzioni cinematografiche: l’eclettico regista statunitense, che in patria si era fatto conosce per alcuni solidi noir come Sciacalli nell’ombra e l’omonimo remake del langhiano M, fu chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione maccartista (la famigerata caccia alle streghe verso i sospetti comunisti), e scelse di trasferirsi in Gran Bretagna per non sottostare alle tattiche intimidatorie.
Ed è proprio in Europa che Losey riuscì ad esprimere al massimo le sue potenzialità dietro la macchina da presa, attraverso produzioni più o meno grosse che attraversavano i generi più disparati, riuscendo al contempo a elevarsi al di sopra del “genere” per dare vita a un cinema d’autore personalissimo e senza compromessi.
Il cinema di Losey è un cinema innanzitutto mentale, giocato sulla psicologia (spesso distorta) dei protagonisti, un cinema che predilesse di frequente la narrazione di storie d’amore malate e perverse (pensiamo a classici come Eva, L’incidente e Messaggero d’amore), senza disdegnare incursioni nel noir, nel war-movie e addirittura nella fantascienza.
Ma se volessimo cimentarci nella rischiosa e difficile impresa di identificare i film più rappresentativi della sua poetica, dovremmo inserire sicuramente due film: Il servo (1963), con Dirk Bogarde, un sottile e crudele gioco al massacro psicologico fra un servitore e il suo padrone che conduce al ribaltamento dei ruoli, e Mr. Klein (1976), un amarissimo apologo kafkiano ambientato in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale, dove la storia del protagonista immaginario si fonde continuamente con la Storia nella sua accezione più tragica.
Mr. Klein (Monsieur Klein nel titolo originale, essendo una co-produzione italo-francese), prodotto dallo stesso protagonista Alain Delon, fu scritto e sceneggiato da Franco Solinas, uno fra i più importanti autori italiani nell’ambito del cinema politico: lavorò per registi come Francesco Rosi, Valerio Zurlini e soprattutto Gillo Pontecorvo, ma anche Francesco Maselli e Costa-Gavras, e pure per registi più popolari come Sergio Sollima, Damiano Damiani, Sergio Corbucci e Giulio Petroni, firmando gli script dei loro western dove la Rivoluzione Messicana diventava una metafora della lotta politica di quegli anni.
Stando a quanto si dice, Mr. Klein doveva essere diretto in origine proprio da Pontecorvo, e le informazioni in mano di chi scrive sono attendibili: il critico cinematografico Umberto Berlenghini racconta che glielo rivelò, ai tempi in cui lavorava per il Noir in Festival (si parla di una trentina di anni fa), lo scrittore Giorgio Gosetti, presidente del suddetto Festival; il quale Gosetti a sua volta l’aveva saputo anni prima dallo stesso Pontecorvo, quando era il suo vice a Venezia.
Non si sa bene in che modo, il progetto originale naufragò, e la regia finì a Losey: non sappiamo come sarebbe stato in mano a un altro, ma Mr. Klein, sotto la regia del Nostro, si rivelò non solo uno dei suoi film più celebri e riusciti, ma anche uno dei più importanti film europei di sempre, in un equilibrio apollineo fra cinema politico e trasfigurazione kafkiana.
Protagonista è Robert Klein (un grande Alain Delon), un uomo qualunque che vive nella Parigi occupata dai nazisti negli anni Quaranta. Collezionista di opere d’arte e amante raffinato della bella vita – vive in un’elegante villa con una giovane amante – si approfitta degli ebrei in difficoltà per acquistare da loro quadri di valore a un prezzo stracciato.
La sua cinica serenità inizia a essere messa in discussione quando riceve una copia di un quotidiano della comunità ebraica, destinato a un tale Robert Klein: scopre così l’esistenza di un suo misterioso omonimo, presumibilmente un ebreo, per il quale egli è stato scambiato. Monsieur Klein decide così di rivolgersi alla polizia, ma finisce al contrario per attirare sospetti su di sé. Attraverso la redazione del giornale, scopre la residenza dell’altro Mr. Klein, che vive in un fatiscente appartamento, ma di lui sembra essersi persa ogni traccia.
Col passare del tempo, Robert Klein si convince che il suo omonimo cerca di sottrarsi alle persecuzioni razziali rubandogli la sua identità, ma la polizia inizia a sospettare sempre più di lui, così l’unica strada per salvarsi sembra essere quella di ritrovare – tramite il suo avvocato – i certificati che attestano la religione cattolica di tutta la sua famiglia. Tramite una lettera, risale a un’amante del misterioso “altro”, che lo invita nel suo castello, il che fortifica i suoi sospetti. Mentre precipita in una spirale di follia, cerca in ogni modo di scoprire chi sia l’uomo che vuole sostituirsi a lui, e continua le ricerche tramite la foto di una ragazza trovata nell’appartamento. Ma la morsa del nazismo si stringe sempre più, inesorabile, attorno a Mr. Klein.
Mr. Klein, insieme a Il servo, è probabilmente la più alta espressione dell’apollineo rigore stilistico e narrativo di Joseph Losey, il quale riserva sempre ai suoi film – almeno a quelli della maturità – una rigidissima cura formale degna di Kubrick e di Hitchcock. Basti pensare alla struttura del nostro film, che partendo dal dramma storico finisce per avere la forma di un giallo, intriso di quel surrealismo claustrofobico kafkiano che è tipico di un certo cinema europeo, per poi tornare a fare i conti con la Storia.
Mr. Klein possiede una sorta di struttura circolare, iniziando e concludendosi con sequenze che mostrano senza remore l’orrore del nazismo: l’incipit mostra infatti un medico – in un freddo e inquietante ospedale – mentre scruta con le mani il volto e il corpo di una donna per stabilire se sia appartenente alla razza ebraica, con una moltitudine di persone che attendono il loro turno per quella sadica e umiliante tortura dove il corpo umano è messo in scena nei suoi aspetti più grotteschi.
L’occupazione nazista fa poi da sfondo alla storia individuale di Robert Klein (anzi, ne è il detonatore), per poi tornare a occuparsi del collettivo nel drammatico finale, quando gli ebrei vengono radunati e caricati sui treni verso i campi di concentramento. Qua, mentre la Storia consuma il suo orrore, Monsieur Klein va incontro alla follia e alla morte, ignorando il richiamo dell’avvocato (Michael Lonsdale) che ha trovato le fatidiche carte scagionanti, per inseguire il suo omonimo, che vediamo soltanto di spalle e che rimane – tanto per il protagonista quanto per lo spettatore – un enigma irrisolvibile. Perché Mr. Klein, in fondo, è il racconto di un enigma senza soluzione, dove la storia individuale e la Storia collettiva si fondono in modo sempre più inestricabile.
Non è la prima volta che Losey fa cinema politico: basti pensare a Per il re e per la patria, un durissimo j’accuse anti-militarista che richiama Orizzonti di gloria di Kubrick, e soprattutto a L’assassinio di Trotsky, ancora con Alain Delon, qua nei panni dell’agente sovietico Ramon Mercader, che uccise con un colpo di picozza lo scomodo rivale di Stalin esiliato in Messico.
In un certo senso, possiamo dire che L’assassinio di Trotsky sia propedeutico a Mr. Klein, una sorta di prova generale: sia per la grande performance di Delon, così glaciale e raffinato come Robert Klein e che proprio come lui andrà incontro alla follia, sia per la messa in scena di una dittatura – comunista da una parte, nazista dall’altra – e dei suoi meccanismi politici e burocratici. Allo stesso modo (anzi, in misura ancora maggiore), Mr. Klein è una lucida disamina politica e burocratica dei gangli che si mettono in moto con la Storia e con le sue storture dittatoriali – la ripetizione del connubio Storia/storia è reiterato e inevitabile.
La vicenda di Mr. Klein ha ascendenze nobili: da una parte ricorda il romanzo Il sosia di Dostoevskij, il cui protagonista è ossessionato dalla presenza di un suo doppelgänger, e più in generale fa riferimento a un topos ancestrale, a una paura atavica dell’uomo: quello di incontrare il proprio doppio. Il che a sua volta è foriero di numerose letture psicanalitiche – il doppelgänger come proiezione di alcune parti della propria identità – e non a caso Mr. Klein è un film complesso, intriso di varie interpretazioni, anche freudiane.
Un tema che ha più volte popolato la letteratura e il cinema, sia classico che moderno: tralasciando epigoni contemporanei come il pur suggestivo Enemy (2013) di Denis Villenevue, pensiamo all’episodio William Wilson di Louis Malle, presente nel film collettivo Tre passi nel delirio (1968), tratto da un racconto di Edgar Allan Poe e, per una curiosa coincidenza, ancora con Alain Delon protagonista, ossessionato da un suo sosia col quale combatte in duello; oppure pensiamo a L’inquilino del terzo piano (1976), di e con Roman Polanski, un racconto totalmente allucinato e composto interamente da allucinazioni e sindromi di persecuzione.
Ma soprattutto pensiamo a Despair (1978) di Rainer Werner Fassbinder, che ha molto in comune con Mr. Klein, nonostante l’ispirazione letteraria differente escluda – almeno in apparenza – una filiazione diretta. L’opera del maestro tedesco è infatti tratta dal romanzo Disperazione di Vladimir Nabokov, e ha come protagonista tale Hermann Hermann (Dirk Bogarde) che entra in crisi di identità e sdoppiamento quando incontra un uomo nel quale crede di vedere il proprio sosia.
Ma se il protagonista del film di Fassbinder è un uomo affetto da nevrosi, la cui ossessione è originata dalla propria mente malata, Monsieur Klein è in origine sano di mente: gli avvenimenti che lo coinvolgono sono frutto di una cospirazione esterna, e sono dati reali a scatenare in lui una follia paranoica. Anche se il racconto è così sfumato da rendere incerto il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tanto da non escludere un’altra interpretazione, quella secondo cui tutto ciò che vediamo sia frutto di una paranoia del personaggio di Alain Delon, una sorta di proiezione freudiana esterna che lo porterebbe a identificare un doppio che lo perseguita.
Ma, se restiamo nella diegesi del racconto, ciò che succede a Robert Klein è un intrigo degno degli incubi a spirale di Hitchcock e Polanski – non a caso, due autori citati in precedenza a proposito di Joseph Losey – che stringono il protagonista in una morsa inesorabile, tanto dal punto di vista psicologico quanto da quello storico-sociale, due dimensioni che convivono costantemente in Mr. Klein e che offrono diverse chiavi interpretative. Come sempre accade nei film più maturi di Losey, la forma è sostanza e la sostanza è forma, e gli interni – grazie alle ricercatissime scenografie – formano ambienti claustrofobici dove l’individuo è sempre più inghiottito dal mistero, dalle ossessioni e dalla persecuzione politica.
Tutto è grigio, imprigionato in forme quasi astratte, dalle abitazioni agli esterni, come le strade spesso piovose. A dire il vero, Robert Klein conduce all’inizio una vita agiata nell’ampia e raffinata villa piena di opere d’arte, insieme all’amante Janine (Juliet Berto): il personaggio è introdotto mentre si approfitta di un ebreo disperato (Jean Bouise) per strappargli un quadro prezioso a poco prezzo, lo stesso uomo che incontrerà alla fine durante la deportazione, a conferma di quella struttura circolare che dicevamo in precedenza.
Subito entra in scena il primo tassello destinato a portarlo alla pazzia, cioè il giornale ebraico recante il suo nome. Robert Klein sembra uscito direttamente da un romanzo di Kafka, a cominciare dal suo aspetto: gli dà forma un glaciale e affascinante Alain Delon, qui in una delle interpretazioni più auliche della sua lunga e illustre carriera, vestito in maniera impeccabile con giacca e cravatta, cappotto, cappello Borsalino e guanti neri. Un uomo comune, che proprio come in un romanzo di Kafka (pensiamo a Il processo, anch’esso più volte trasposto al cinema) si trova invischiato in un intrigo surreale e dal quale è impossibile districarsi.
Come il protagonista di un giallo di Hitchcock – un giallo destinato a rimanere però senza soluzione – Robert Klein inizia una propria indagine personale, prima nella sede del giornale e poi dalla polizia, senza sapere che questa mossa lo avrebbe portato progressivamente alla rovina. Mentre due grigi e inquietanti poliziotti in borghese (il grigio è il colore dominante, nella fotografia e nelle scenografie) lo pedinano e lo interrogano, Klein ritrova lo squallido appartamento dove vive il suo omonimo: un uomo di cui non sa – e non sappiamo (il punto di vista narrativo fra protagonista e spettatore coincide) – nulla, ma che è descritto da chi lo ha conosciuto come un uomo simile a lui anche nell’aspetto (pensiamo alla portiera del condominio, che per un attimo confonde Delon per “l’altro” Klein).
Il doppelgänger di Klein è un mistero inafferrabile, un personaggio a cui il protagonista sembra sempre poter arrivare ma che continua a sfuggirgli, nel corso delle sue indagini (per tornare a Freud, la sua vicenda può essere letta come una ricerca di sé stesso): per esempio, quando in un ristorante qualcuno lo sta cercando ma scompare, poi quando lo contatta al telefono ma il Klein ebreo viere arrestato, e infine nella conclusione, quando lo intravede (o crede di intravederlo) nella folla dei deportati, ma solo da dietro, per cui l’identità dell’omonimo Klein è destinato a rimanere – e a rimanerci – ignota.
Una lettera indirizzata al suo alter ego e recapitata a casa sua – il che lo convince ancora di più che l’uomo voglia appropriarsi della sua identità per sfuggire alle persecuzioni razziali – lo porta in un altrettanto misterioso castello dove vive Florence (Jeanne Moreau), amante dell’inafferrabile persecutore, insieme al marito (Massimo Girotti). Il dialogo con la donna gli conferma l’esistenza di questo altro Mr. Klein, ma ancora una volta la sua vera identità ci sfugge.
L’apollinea raffinatezza registica si manifesta tanto nella forma quanto nella sostanza, cioè nella storia narrata, poiché abbiamo già detto che in Losey le due cose coincidono. Come già in film precedenti – pensiamo a Il servo – il regista fa un ampio ma misurato utilizzo del piano-sequenza, inquadrando gli eleganti interni con suggestive carrellate, impreziosite dalle scenografie ricche di particolari (le opere d’arte in casa di Klein, gli arredamenti del castello, i tetri uffici della burocrazia) e dalla magistrale fotografia di Gerry Fisher.
Una fotografia che, come si è detto, predilige i toni grigi e cupi, tanto per gli interni quanto per gli esterni, comprese le numerose scene ambientate di notte: un grigio cupo lontano però dai toni gotici, ma che sembra anch’esso la trasfigurazione visiva del mondo letterario di Kafka, un universo tipicamente europeo fatto di eleganti abitazioni e squallidi appartamenti, uffici burocratici odoranti di muffa (la regia ci fa quasi sentire a pelle gli ambienti ricostruiti) e personaggi anonimi che si muovono in un mondo tetro, quasi irreale.
Un mondo tendente spesso al surreale, e nel quale però la tragica realtà continua a fare irruzione, in quella che è una contraddizione solo apparente, poiché l’esperta regia è abile nel trasportarci tra la realtà e la follia paranoica. Mr. Klein vive in gran parte di dialoghi e silenzi, inframmezzati talvolta dalle musiche dissonanti, cupe e inquietanti di Egisto Macchi e Pierre Porte, che impreziosiscono l’atmosfera.
Quello che poteva essere un semplice caso di omonimia, forse casuale, viene interpretato da Robert Klein sempre più come una persecuzione, come un intrigo ai suoi danni in cui non è mai chiaro dove finisce la realtà e inizia la sua immaginazione: il racconto, facendo forza innanzitutto su una sceneggiatura magistrale, si evolve grazie alla regia in una narrazione cadenzata, inesorabile e ricca di una sottile suspense dove si esplica tutta l’ossessione di Losey per il rigore formale.
Le indagini personali di Klein, mentre la polizia sospetta di lui, lo portano all’appartamento, poi tramite una foto cerca di risalire alla ragazza del suo persecutore: anche lei una figura inafferrabile, conosciuta con vari nomi, che lo conduce da un bordello a una fabbrica, fino a un incontro casuale sul treno, dove Klein crede di aver trovato la soluzione all’enigma, tanto da rinunciare a fuggire col passaporto falso che gli ha procurato il suo avvocato.
Un enigma che però continuerà a sfuggirgli e a sfuggirci per tutto il film, fino alla tragica conclusione che mantiene intatta l’ambivalenza su cui si regge l’intero Mr. Klein: da una parte, l’individuo con le sue ossessioni e le sue paranoie, e dall’altra, lo Stato dittatoriale che distrugge senza pietà ogni individuo; da una parte, la lettura psicoanalitica, e dall’altra, la lettura storica e sociologica.