Nata in occasione di Paterson, la retrospettiva dedicata a Jim Jarmusch dalla Cineteca di Bologna è un’ottima scusa per occuparsi nuovamente dei suoi film. Abbiamo chiesto a Lapo Gresleri e al gruppo di Leit Movie di parlarci musicalmente di alcune sue opere, cominciando da Mystery Train.
Com’è noto ad ogni amante di musica leggera, Memphis è una terra di mezzo. Patria del soul, del rock e del rhythm ‘n’ blues, ha dato i natali artistici a musicisti quali B. B. King, Johnny Cash, Aretha Franklin, Jerry Lee Lewis, Otis Redding, Howlin’ Wolf, John Lee Hooker, Muddy Waters, W. C. Handy e Elvis Presley, molti dei quali hanno inciso per le principali case discografiche locali, la Sun e la Stax.
Coacervo di influenze creative, la cittadina risulta dunque uno dei centri di quella cultura popolare statunitense in cui la musica ha svolto sempre la funzione essenziale di traino generazionale, scandendo con vari ritmi di decennio in decennio i grandi e piccoli eventi storici e sociali dagli anni Cinquanta ad oggi.
Con Mystery Train Jim Jarmusch – colto e raffinato cultore musicale e musicista a sua volta – rende omaggio alla seconda Arte e all’emblema americano Elvis, ambientando le vicende dei suoi raminghi protagonisti nella capitale del Tennessee, luogo sopravvissuto al mito ed eletto ora al culto, sorta di museo a cielo aperto in cui l’aura sacrale è vissuta ormai come una cappa vetusta e opprimente. Se la coppia giapponese in pellegrinaggio nei luoghi toccati del Re resta costantemente delusa davanti a una realtà ben diversa da quella idealizzata dalla leggenda, la giovane Luisa incontra il fantasma di Elvis, mentre lo sbandato Johnny – interpretato in un cortocircuito culturale da Joe Strummer – vive l’incubo di una vaga somiglianza con il cantante. Ognuno ha che fare con l’immagine creatasi dell’idolo, positiva o negativa che sia, un gioco di specchi in cui tutti finiscono per vedere se stessi, le proprie malinconie, frustrazioni e sogni. Come la Lonesome Town di Ricky Nelson, Memphis diviene una località dello spirito, idealizzato punto di ritrovo per anime in pena che possono trovarvi un temporaneo ristoro per poi ripartire o fuggire. Non a caso il centro del film è l’albergo, luogo rock per antonomasia dove rintanarsi a rivangare il passato e riflettere sulla propria condizione attuale: un modesto e fatiscente Heartbreak Hotel, snodo esistenziale rivelatorio da cui, al mattino seguente, i personaggi che vi alloggiano usciranno in qualche modo cambiati.
Ma tale cambiamento – pare dire Jarmusch – è dato non tanto dall’esperienza in sé, quanto dal modo in cui è vissuta, un’elaborazione dovuta a fattori interiori più che esteriori. Difatti la Memphis mitica di Elvis e delle altre leggende non esiste più, se non nei sogni e nei ricordi degli ammiratori, nostalgica adorazione delle tracce di un tempo passato e per questo idealizzato. Così si motivano i cammei di Strummer, Rufus Thomas (l’uomo alla stazione) e di Screamin’ Jay Hawkins (il portiere dell’albergo), figure riconoscibili ma fuori posto, lontane dalle immagini ad esse associate perché ormai superate dal loro essere diventate altro da sé, aver resistito al proprio mito pur restando gli indiscutibili artisti che sono.
L’unico iconico riferimento attuale resta allora la musica, presenza onnipresente che aleggia tra le strade come negli spazi chiusi, in un costante commento sonoro del film che mischia i generi memphisiani in un suggestivo rock-blues, facendosi rivelatore di quello spirito alla base della cultura locale, incentrata sull’assimilazione e la rielaborazione di diversi impulsi in un prodotto sempre nuovo e al passo coi tempi. In un gioco di rimandi e tributi, la musica extradiegetica – creata per l’occasione dall’attore e musicista John Lurie – si alterna a classici emessi da walkman e radio, tra i quali Blue Moon (che torna tre volte nell’arco della narrazione) diviene l’emblema della pellicola, una struggente ballata sul tempo passato in cui il rimpianto per un amore mai trovato cela la fiducia in un presente dove la ricerca è più che mai necessaria.