Il termine docu-gioco non è esattamente un neologismo: basta fare una ricerca su Google per trovarlo utilizzato in alcuni, sebbene rari, casi. Tuttavia non esiste ufficialmente come genere videoludico, e a ben vedere bisognerebbe capire esattamente quanti giochi possano rientrare in questa categoria. Volendo abbozzare una definizione, il docu-gioco potrebbe comprendere tutti quei titoli che nascono dall’incontro tra documentario e videogioco, opere che mescolano la poetica del documentario, con inserti filmati e interviste tipiche di questo genere audiovisivo, a fasi di puro gameplay. Questa definizione l’abbiamo tirata fuori partendo dal caso particolare di Never Alone, ma si potrebbe ampliare con tutte le variazioni sul tema, includendo magari anche quei giochi che introducono schede informative come parte integrante dell’esperienza (vedi Valiant Hearts, videogame nato in occasione del centenario della Prima guerra mondiale). In attesa di ragionarci meglio – e in questo senso possono risultare utili le ricerche portate avanti da alcuni autori stranieri – restiamo concentrati su Never Alone.
Never Alone (Kisima Inŋitchuŋa) è stato pubblicato lo scorso novembre su PC, PlayStation 4 e Xbox One. Il titolo è un platform con elementi puzzle e a dire il vero dal punto di vista delle meccaniche di gioco ha alcuni limiti che ne pregiudicano la qualità. Eppure, come progetto tout court, è un’opera notevole. In Never Alone entriamo in contatto con la cultura e le tradizioni degli Iñupiat, i nativi dell’Alaska. A essere messa in scena è una fiaba tradizionale, di quelle tramandate di generazione in generazione, accompagnata dalla voce narrante di un nativo. Lungo il percorso, il giocatore può “sbloccare” inserti filmati che vanno a comporre un unico grande documentario, fatto di immagini di repertorio e interviste. Il viaggio di Never Alone è incantevole: perché legato alla tradizione, perché capace di catturare il giocatore con questo mix di platform, puzzle e folklore. Never Alone potrebbe diventare pioniere di un nuovo modo di fare videogiochi, qualora si decidesse di continuare su questa strada con più frequenza. Ce lo auguriamo.
Incuriositi da questo esperimento, abbiamo fatto alcune ricerche per capire se c’erano opere analoghe. Son saltati fuori Ohenro–San: Hosshin no Dojo (PIN Change, 2003) – un simulatore di pellegrinaggio basato interamente su fotografie reali “percorribili” dal giocatore – e Cave! Cave! Deus Videt (We Are Müesli, 2013), visual novel che mescola video di inizio Novecento, immagini e geometria per omaggiare l’arte di Bosch. Curioso anche Kukulki (SOS, 2014), titolo mobile che fa il verso al tormentone Candy Crush ma si basa sull’omonima caramella polacca a base di vodka. Opere molto diverse, chissà se si possono far rientrare tra i docu-giochi. A proposito, Never Alone non vi riporta alla mente Nanuk l’eschimese? L’incubo di generazioni di studenti.