Torniamo con un secondo approfondimento sul capolavoro di Martin Scorsese, preso da un altro punto di vista. 

“Vivendo nella Little Italy di Manhattan potevi scegliere fra diventare gangster o prete. Io scelsi la via religiosa, ma finii per diventare un regista”. Il neoadolescente Martin Scorsese, bloccato tra le mura di casa per via dell’asma, guarda dalla sua finestra il formicaio umano di Little Italy e i goodfellas che ne popolano le strade, carismatici e irraggiungibili, e sublima il suo isolamento dalla vita del quartiere con i grandi classici del cinema americano trasmessi in televisione. Quindici anni dopo esce nelle sale Mean Streets, film antesignano della poetica scorsesiana in bilico tra autobiografia e operetta popolare.

I lavori successivi che hanno consacrato il regista italoamericano devono tutto a questo dolente trattato antropologico della comunità di Little Italy, piccola città dannata nel cuore di Manhattan, dove le radici popolari e il fervore cattolico lasciano spazio a una gioventù disillusa che può solo aderire alla tradizione o ribellarsi a costo della vita. Santità e dannazione come motori del mondo  in perenne conflitto, quindi, ed è questa dualità ad alimentare il calvario spirituale di Charlie Cappa, alter ego di Scorsese a cui il regista dà il cognome di sua madre, interpretato da un Harvey Keitel al suo secondo ruolo per il cinema.

Il giovane Charlie, amante degli spaghetti alle vongole, di John Wayne e Francesco d’Assisi, sogna una possibile ascensione al Paradiso ma tocca con mano le fiamme dell’Inferno, si divide tra i banchi della chiesa e il bar dell’amico Tony, cerca di seguire il codice di condotta dello zio mafioso ma non può rinunciare all’affetto per l’epilettica Teresa e il suo folle cugino Johnny Boy. Il giovane gangster è un’anima divisa in due, scissa tra affetto e repulsione per un mondo, quello di Little Italy, messo per la prima volta a nudo su grande schermo con tutte le sue bellezze e contraddizioni: le strade illuminate a festa per San Gennaro, le foto del Papa appese ai muri dei ristoranti e l’eredità dei vecchi immigrati italiani coesistono con il degrado morale e il disincanto di una generazione, perseguitata dai fantasmi del Vietnam, che trova nella violenza l’unico strumento di rivalsa.

Vedere Mean Streets oggi, per chi è avvezzo al cinema di Scorsese, significa prendere consapevolezza di quanto il regista abbia contribuito a rendere New York la città cinematografica per antonomasia nell’immaginario collettivo, ed è un piacere trovare già in questa opera giovanile tutti  i marchi di fabbrica del regista. C’è l’amore viscerale per il cinema, purgatorio dell’anima e fonte d’ispirazione inesauribile, qui celebrato con citazioni che spaziano dalla Nouvelle Vague a Roger Corman, factotum di Scorsese ai suoi esordi da regista; c’è la musica, onnipresente contrappunto della violenta quotidianità di Charlie, scissa anch’essa tra la classicità italica di Renato Carosone e la nuova rabbia giovane dei Rolling Stones; e c’è, soprattutto, Robert De Niro, vero padrone del film con il suo imprevedibile Johnny Boy, anticonformista frustrato dalle convenzioni della sua comunità e determinato, come Travis Bickle, a distruggersi pur di non assoggettarsi alla norma.

Mean Streets è una discesa negli Inferi del cuore popolare della Grande Mela, la lucida riflessione di un regista sui lati oscuri di una comunità cruciale per la sua formazione e la pietra fondante di un discorso di cinema che è certamente ben lontano dall’esaurirsi.