Un padre, due figli, lo spettro del neofascismo che entra in casa: con Noi e loro (titolo originale: Jouer avec le feu) le sorelle Delphine e Muriel Coulin firmano un film potente che scava e si insinua nel solco di una ferita che è propria tanto dei suoi protagonisti quanto della Francia intera.
Scegliendo di osservare la trasformazione del clima sociopolitico francese dal particolare punto di vista di un ex militante di sinistra che ha ormai abbandonato l’attività politica e si ritrova a fronteggiare il pericolo neofascista proprio tra le mura domestiche (Vincent Lindon), le registe e sceneggiatrici prendono le mosse dal romanzo Quel che serve di notte di Laurent Petitmangin e organizzano per il loro terzo lungometraggio un saggio intimo e politico sulla deriva a destra della società europea, strutturando la narrazione sull’instabile equilibri(sm)o che caratterizza il nucleo familiare al centro del film nonché il cuore della nostra collettività.
Se le trasmissioni radiofoniche o televisive che commentano il dibattito politico o descrivono la situazione sociale sono soluzioni lievemente didascaliche miranti a restituire lo status quo, molto più efficaci sono le scelte che agiscono anche sul lato metaforico della questione. Gli esempi più ovvi sono i dialoghi tra padre e figlio in campo/controcampo a segnare l’inconciliabilità delle parti o i campi e i piani che isolano il giovane dal resto della famiglia, ma quello più fulgido è rappresentato delle inquadrature iniziali: una danza esagitata su sfondo blu / Vincent Lindon lungo i binari del treno che porta una torcia rossa / una luce bianca che acceca lo spettatore.
Il film si apre dunque con il tricolore francese, in cui le Coulin immergono i loro personaggi per rendere esplicito il fatto che l’identità (anche privata, oltre che pubblica) è innanzitutto una questione politica. “Quando dicono che non è politica, allora bisogna preoccuparsi” dice infatti il padre al figlio maggiore Felix durante la loro prima discussione causata dalle nuove frequentazioni del ragazzo.
La parabola di quest’ultimo personaggio – disoccupato e senza diploma – è esemplare del pericolo a cui sono soggetti i giovani d’oggi: poiché “l’idea di interessarsi ai giovani è totalmente assente dall’agenda politica, l’impressione di essere abbandonati fa sentire questa cosiddetta ‘generazione dimenticata’ a disagio” e dunque manchevole della fiducia nel progresso, scettica nei confronti dei valori comunitari e aperta e vulnerabile a chi offre una soluzione fortemente (ma falsamente) identitaria ai problemi contingenti.
Ecco dunque aprirsi quel divario (insanabile?) tra noi e loro: dove prima il noi era “noi tre” (il nucleo familiare coeso dopo la perdita della moglie/madre) ora il pronome è inglobato da un vorace movimento pseudopolitico che ambisce solo a distinguere i suoi affiliati da loro, gli immigrati, gli altri che mettono a repentaglio la purezza dei francesi nati in Lorena. Il nuovo noi disgrega di fatto l’individualità, annulla l’io in una sorta di clonazione dei singoli che esistono e si rafforzano solo in quanto parte di un gruppo: la coreografia iniziale, con il suo effetto replicativo, ne è chiara e bellissima allegoria.
“Con noi o contro di noi”, “noi e loro”: il mondo binario perseguito dai nuovi fascisti amici di Felix, che arrivano scomodamente a rinfacciare ai progressisti di essere intolleranti verso chi non la pensa come loro, è certamente una chiave di interpretazione del reale più semplice e lineare rispetto a quella propugnata dal padre, che vede l’accoglienza e l’integrazione come motori di un mutamento sociale auspicabile e positivo.
La grandezza del film sta però nel mantenere sempre al centro il nucleo familiare dei protagonisti e sempre a fuoco i graduali cambiamenti a cui esso viene sottoposto. Se in certi momenti l’andamento della narrazione pare peccare di poca incisività è perché le registe adottano un registro pacato, un tono piano che aderisce in perfetta mimesi al carattere del protagonista, già provato dal lutto della moglie e ora sul crinale di una lotta per la quale forse non ha più energia.
Vincent Lindon, nel ruolo di un moderno tedoforo che tiene alta la fiaccola della libertà, vive il film con una recitazione intimista e un’amara rassegnazione nello sguardo che gli hanno meritatamente valso la coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile alla 81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Non sono da meno le interpretazioni dei due figli: Benjamin Voisin (Illusioni perdute) è arrabbiato, animalesco e coerentemente confuso; Stefan Crepon (Peter von Kant) dolcemente combattuto tra l’amore filiale e l’affetto fraterno.