“Uccidiamo il chiaro di luna!”. Nel 1974 Non aprite quella porta piomba sul panorama cinematografico mondiale con la potenza di un manifesto futurista. Ironicamente, alcune immagini di transizione del film inquadrano la luna piena nella notte nera: ma non sono che brevi lampi, apparizioni, scheletri di quell'horror alla Hammer, letterario e sofisticato, che tanto aveva affascinato Hooper in gioventù.

Non aprite quella porta è brutalmente esposto alla luce solare, i corpi si decompongono, la materia decade al punto che è possibile avvertirne l'odore pestilenziale; il montaggio è rapido e subliminale, cinema surrealista sottoposto a traumatizzante accelerazione. In un'ora e ventiquattro minuti, Hooper divora decenni di storia del cinema - il comico muto slapstick, The Three Stooges, Ford e il western, la fantascienza di Siegel, il musical – per restituirli deformi e dissanguati. Uomo di grande sensibilità e cultura, professore universitario – come lo era Wes Craven – il regista concepisce Non aprite quella porta come allegoria politica e crudo ritratto di un Paese che trova nella violenza la sua natura primaria.

Il film è fondativo e pionieristico allo stesso modo di Nascita di una Nazione (1915) di David Wark Griffith, di cui rappresenta il negativo: la grande epica dell'uomo bianco è rovesciata in incubo afasico e deragliato, da cui emerge un'America di freaks insediati tra stazioni di servizio, frontiere, strade, case edoardiane fatiscenti. Portando avanti una riflessione estetica ed etica complessa, Hooper trasforma una produzione indipendente a basso costo in spietato studio antropologico e psicologico di un'umanità allo sbando e priva di riferimenti.

Film “povero” ma radicale, che attinge a una pluralità di fermenti culturali - Hooper e Henkel studiano Marshall McLuhan, il cinéma vérité, le fiabe di Grimm e le leggende giapponesi - Non aprite quella porta crea una forma inedita in cui lasciar rispecchiare l'inconscio collettivo traumatizzato dalle atrocità del Vietnam, dallo scandalo Watergate e dal serial killer Ed Gein (principale ispirazione per il personaggio di Leatherface). Portando alle estreme conseguenze lo spirito e i motivi di Psycho (1960), apertamente omaggiato, Non aprite quella porta trascende le coordinate dell'horror e dello slasher per farsi immagine cupa e dissonante dell'America, critica feroce del nucleo familiare, visione aberrante di una natura umana corrotta dal male e da una primitiva ignoranza.

Morte come installazione artistica, saturazione materica dello schermo, calore: l'opera voluta da Hooper è un vero assalto ai sensi del pubblico, sofisticata nella sua manipolazione di vero e falso, estetica documentaria e potenza immaginaria. Gli oggetti-emblemi del film – la motosega, il gancio da macellaio, il martello – illusero gli spettatori di trovarsi di fronte a fiumi di gore, mentre in realtà il sangue che scorre è pochissimo; Hooper tagliò volutamente di pochi secondi le scene più efferate (seguendo l'esempio di Hitchcock) per evitare il rating X a favore di un più commerciale R.

L'utilizzo dell'inquadratura dal basso costituisce la cifra stilistica del film, a suggerire uno sguardo dall'inferno in cui strisciamo: stagliate contro cieli azzurri e un sole immoto, le figure umane appaiono fragili e reificate, oggetti privi di coscienza. Hooper accosta sequenze statiche ad altre frenetiche, girate con macchina a mano; predilige prospettive innaturali, angoli olandesi e compone mascherini profilmici (come l'altalena che fa da cornice all'ingresso di Kirk e Pam). Il lavoro sperimentale sulla colonna sonora (ancora un'eredità hitchockiana) costituisce un altro elemento d'avanguardia e anticipa l'esperienza immersiva del Dolby Surround che arriverà solo negli anni successivi.

Il rigore e l'abnegazione di Hooper si esercitarono soprattutto sul set, dove gli attori furono costretti a lavorare sino a sedici ore al giorno in condizioni estreme, tra temperature elevate (oltre i 40 gradi) e sporcizia, in un clima psicologico malsano che il regista perseguiva con ogni mezzo.

Eppure, nonostante la saturazione di un “marcio” che corrompe ogni cosa, Non aprite quella porta riesce a lasciarci radiose immagini simmetriche e visioni di sovrumana astrazione. Pur spazzando via qualsiasi illusione di cinema in posa, falsità da Studio e gusto conservatore della bellezza, il regista inietta una nuova, oscena concezione del Bello che si esprime nelle albe funebri, nelle danze folli e astratte di Leatherface, nel viso insanguinato di Sally/Marilyn Burns, attrice-kamikaze immolata corpo e spirito al proprio ruolo, con una radicalità di cui poche interpreti oggi sarebbero capaci.

Il film ha influenzato una generazione di registi – da Coppola a Cimino – ma la sua ombra continua ad allungarsi sul cinema contemporaneo distruggendone le moderne ipocrisie, le involuzioni estetiche, gli informi script e le censure. Assistervi oggi, in un contesto industriale di annullamento delle facoltà attive dello spettatore, è un vero privilegio e un atto rivoluzionario.