Negli anni Settanta l'Italia, esaurito il boom economico, si trova a fare i conti con un mutamento “antropologico” – come lo definiva Pasolini – volutamente ignorato, ma ormai insito nel tessuto comunitario, messo ancora più a dura prova da crisi, scandali e attentati che minarono la realtà civile, portando a una nuova concezione dello Stato e delle sue istituzioni, visti come inaffidabili garanti di giustizia e sicurezza economica quanto fisica. Sul finire del decennio, Monicelli firma una delle sue opere migliori, ritratto spietato di quel tempo con cui ora era inevitabile il confronto.
Un borghese piccolo piccolo si fa così “canto del cigno” non solo di un'epoca, ma anche di un genere, la commedia all'italiana, venendone a infrangere i canoni, lo stile, ma soprattutto mettendone definitivamente in discussione il suo soggetto principale: l'italiano medio di cui Mastroianni, Tognazzi, Gassman, Manfredi e Sordi hanno incarnato, per quasi vent'anni, vizi e incongruenze in una galleria di antieroci piccoli borghesi arrivisti e imbroglioni.
Non è dunque casuale la scelta di affidare proprio a Sordi – colui che meglio ha saputo dar corpo alla meschinità dell'italiano vittima consenziente della “corsa all'oro” degli anni precedenti (Il vedovo, Il giudizio universale o Il boom) – il ruolo di Giovanni Vivaldi. L'attore smette così i suoi ricorrenti panni buffoneschi per interpretare un misero dipendente statale che, mortogli accidentalmente l'adorato figlio Mario in una sparatoria, diventa lo spietato carnefice dell'assassino.
Monicelli in definitiva comprende che la derisione della borghesia equivale a una manifestazione di fiducia, di speranza in una sua redenzione, pur lenta e tardiva; ma ormai non c'è più niente di cui ridere, perché le figure tipiche che fino a qualche anno prima costellavano il Paese sono cambiate e l'insieme di credenze, rituali e valori su cui hanno costruito la propria identità sociale viene ora a sgretolarsi, lasciando l'uomo in balia di se stesso in una disperata ricerca di quel falso ordine ed equilibrio che aveva caratterizzato il vivere collettivo. Vivaldi, apparentemente, trova appoggio nella confraternita massonica di cui entra a far parte, ma resosi presto conto che quello offertogli dagli affiliati è un sostegno cameratesco di sole parole, ormai irrimediabilmente disilluso, dà sfogo alla propria rabbia nel sequestro e nella prolungata quanto letale tortura del giovane che ha provocato la morte di Mario.
Nostrano Cane di paglia, Giovanni abbandona il suo passivismo, ma se per Peckinpah la trasformazione del protagonista da vittima a lucido carnefice è mossa da un estremo istinto di sopravvivenza e di autodifesa, per Monicelli è pura e semplice espressione della crudeltà insita in ognuno, che una solitudine (indotta o involontaria che sia) non può che fomentare. Solo il vivere civile può evitarlo, ma la società ha pressoché perso la propria capacità coadiuvante, alimentando l'isolamento del singolo in favore di una massa, le cui schegge impazzite spesso non restano che oscuri casi di cronaca nera. Una condanna che si fa anche congedo da un'attualità spaventosa, come dimostra la produzione successiva dell'autore che preferirà guardare quasi esclusivamente – con toni e risultati altalenanti – al passato, o come indagine a ritroso dei correnti caratteri italiani (Il Marchese del Grillo o I picari) o con i toni nostalgici di un elegiaco rimpianto (Amici miei atto II o Cari fottutissimi amici).