“Dimmi il nome di cinque celebrità che hanno iniziato con l’horror.” Quando Maxine entra nel negozio di videonoleggio e getta la provocazione all’amico Leon, sono trascorsi appena una decina di minuti dall’inizio del terzo capitolo della trilogia di Ti West. Un tempo in cui ci sembra di essere già talmente edotti circa il tenore dell’operazione che a parlare non è più Maxine Minx — (quasi ex) star del porno e diva dell’horror wannabe — ma proprio Mia Goth, direttamente allo spettatore.

Perché sebbene la Goth abbia debuttato sul grande schermo in serie A (con Lars Von Trier, in Nymphomaniac), è indubbio che il suo successo coincida con quello del suo personaggio, con la capacità di piegare un’intera serie di film alle sue interpretazioni, dentro e fuori gli stilemi del genere.

Al principio fu X (2022). Immaginiamolo per un momento come un afflato di retromania purissima nell’epoca dell’horror più “arthouse” (qualcuno si ostina ancora a chiamarlo prestige o addirittura elevated): quel filone squisitamente psicologico e dall’estetica riconoscibile che, se pure va al risparmio, si tiene alla larga da tecniche di spavento facilone.

Mentre critica e pubblico tornavano a celebrare il genere elevandolo (appunto) in ambito mainstream, Ti West sceglieva platealmente di esaltarne i toni più popolari, con lo sguardo specifico del contesto prescelto (in questo caso, il Texas nel 1979). “Omaggio”, “citazione”, “allusione”, “tributo” sono termini che capiterà di leggere praticamente sempre nei vari approfondimenti del film in questione.

E va bene, X è uno slasher classico, oltre che un classico slasher (Texas Chainsaw Pornstar Massacre si dirà poi), ma la storia della troupe di un film porno che viene massacrata da una inquietante coppia di anziani è anche un racconto che si emancipa dai temi dell’horror contemporaneo — quello elevato — e torna a far parlare di cinema in modo più ampio e trasversale.

C’è l’industria della pornografia, l’ossessione per la celebrità ai tempi del puritanesimo, la droga e la televisione, entrambe sottofondo di un’America ancora preda di stress post traumatico per la guerra in Vietnam. Soprattutto, c’è il desiderio sessuale (non il sesso e basta). Il tutto dipanato attraverso un’ironia sadica, trovate di montaggio, trucco prostetico, tecniche narrative che non hanno paura di sembrare rétro. E quindi, finalmente e irrimediabilmente drammatiche.

E poi c’è Mia Goth. Non chiamatela scream queen, perché la storia del suo successo attoriale va oltre le fughe, gli inseguimenti, le posizioni di vulnerabilità. Quanto oltre? Quel che basta per fare la differenza. Non solo perché finisce per interpretare due ruoli distinti nello stesso film (l’attrice porno Maxine e la vecchia Pearl), ma proprio perché le sue interpretazioni non si limitano a essere bidimensionali. Maxine e Pearl sono vittime e carnefici allo stesso tempo, ma in entrambe risiede un aspetto sinistro e imprevedibile che le rende letali e inafferrabili. Né anti-eroine, né semplici villain.

Mia Goth ha la grande capacità di masticare la lezione di Barbara Steele, Ingrid Pitt e Jamie Lee Curtis in un’ottica davvero psycho-biddy (e mi rendo conto che prima o poi dovremo parlare di Bette Davis). Dalla rappresentazione dei disturbi psichici all’ossessione per la competizione, l’invecchiamento, il successo, Goth si rivela non solo “musa” formidabile, ma forza interpretativa capace di sbaragliare le carte. Al punto che West finisce per scrivere un prequel direttamente durante le riprese.

Girato praticamente back-to-back, Pearl esce qualche mese dopo X, sbarcando in anteprima a Venezia con benemerito entusiasmo. West ha intuito il potenziale di un Mia Goth Show e ne dirige uno che funziona benissimo come episodio a sé stante, per quanto legato all’idea antologica che ha cominciato a concretizzare. Fedele alla sua poetica di recupero, Pearl è ambientato sempre in Texas ma nel 1918, in un’estetica Technicolor compresa tra gli anni ‘30 e ‘60.

La versione perversa de Il mago di Oz e di Tutti insieme appassionatamente (The Sound of Music): un film che ancora una volta sceglie di dialogare col contemporaneo celebrando il passato (la spanish flu come espediente-specchio del pubblico in mascherina in piena emergenza COVID-19, tanto per dirne una). L’origin story della vecchia serial killer di X è talmente ben scritta e girata che finisce per ammaliare — a detta sua: turbare— pure Scorsese.

Bizzarro, sopra le righe, classico (nel senso di horror d’altri tempi) ma audace, e in modo intelligente. Difficile fare di meglio. Sembra saperlo Maxine Minx, quando nel terzo atto (MaXXXine, 2024) decide di spegnere una sigaretta sulla stella dell’Hollywood Boulevard dedicata a Theda Bara, l’icona goth — ehm — del cinema muto che era stata feticcio di Pearl, tanto da chiamare Theda il “suo” alligatore. Del resto è il 1985, al cinema non danno più Cleopatra ma St. Elmo’s Fire, e le figure del muto in questa Hollywood sono solo rievocazioni sulle quali… beh… Maxine è pronta a camminare, per così dire. Letteralmente, e con buona pace della stone face di Buster Keaton.

In MaXXXine si giocano ancora una volta recuperi altri, consacrando la trilogia di West come un gioco alternato di intertestualità e trasformismi. Qui non siamo in una fattoria del Texas, ma nella Hollywood al neon brutta, sporca e cattiva, un mix di immaginari che attinge a Brian De Palma, Wes Craven, Dario Argento, Sergio Martino e Lucio Fulci. Insomma, ancora in zona slasher ma con tinte neo-noir e splatter.

Maxine è stata scelta per girare The Puritan 2, il sequel di un horror di culto diretto dalla regista Elizabeth Bender. Certo, è anche perseguitata da un imitatore di Richard Ramirez, il serial killer noto come Night Stalker, e la sua scalata al successo rischia di essere sabotata (ancora una volta). Ma Maxine — che non è un personaggio in bianco e nero, bensì mutevole a seconda del contesto — sa abbracciare con tempismo le sue tendenze sociopatiche, sacrificando le empatie (se ci sono, forse solo per l’amico Leon) sull’altare dell’ossessione.

I will not accept a life I do not deserve. Non la accetta, Maxine, e il risultato è il film più divertente del lotto, un’orgia di glamour marcissimo e strombazzanti stimoli cinefili in cui anche attori come Kevin Bacon, Giancarlo Esposito e Bobby Cannavale sono costretti a ruoli spregiudicati, tossici e… buffi. Ancora una volta non c’è salvezza per gli uomini. E alle donne, a cui sono rifilate le delusioni e le prevaricazioni, non resta che abbracciare il modello Bette Davis.

L’unico e solo ideale della premiata ditta West-Goth apre MaXXXine con una sua famigerata citazione e lo chiude con la canzone che le dedicò Jackie DeShannon (nella versione di Kim Carnes, ovviamente). E non avrà gli occhi di Bette Davis, Mia Goth, ma il potere di sottomettere un film intero al suo magnetismo sì.

“Il sangue è sbagliato. Kensington Gore: sembra un brutto film della Hammer”, commenta Elizabeth Debicki nel ruolo della regista-alter ego di West. Non esistono brutti film della Hammer e suppongo che Ti West lo sappia molto bene. Così come noi sappiamo quanto sia facile ammiccare, e quanto sia difficile farlo con un senso di autentica libertà. E la libertà è sempre stata il motore della trilogia, in definitiva già culto, laddove anche la sua chiusura è sempre stata subordinata alle ispirazioni, a rischio di disattendere le aspettative.

“Vorrei solo che non finisse mai” e non sappiamo se sia davvero Maxine a parlare o la nostra fame di personaggi posti sapientemente al centro della scena, quelli che nascono dalla capacità di mettere da parte l’ego o il proprio definitissimo sguardo davanti a un’idea. Semplice, non necessariamente di “rottura”, ma sicuramente brillante.