Omicidio a luci rosse ha il potere di guadagnare fascino a ogni visione, come quando si ripercorre un proprio sogno trovando attraenti immagini o simboli che prima apparivano privi di significato. Si tratta probabilmente del film più riuscito di Brian De Palma, come piena e armoniosa fusione dei suoi topoi ricorrenti: dall’impotenza al voyeurismo, dal tema del doppio fino alla sovrabbondanza barocca, ma mai fine a se stessa, di tecniche e scenografie invadenti e sopra le righe. Un labirinto di strutture bizzarre in cui a farci da guida è una macchina da presa anarchica protagonista di movimenti lunghi e vertiginosi.
Vampiro in un horror low budget, Jake Scully perde il posto di lavoro a causa di un improvviso attacco di claustrofobia che gli impedisce di ruggire verso la macchina da presa dall’interno di una bara. Sconfitto sul luogo di lavoro, riceve il secondo trauma quando, tornato a casa, scopre che la moglie lo tradisce. Nel momento di maggiore disperazione e senza un letto dove dormire conosce Sam Bouchard, che gli offre di stare nel suo fantascientifico appartamento mentre è in viaggio per affari. Una particolarità di questa strana abitazione è la presenza di un cannocchiale simile a quelli a gettoni che si trovano sui monumenti. Da lì, ogni sera, attraverso l’ampia vetrata di una villa, si può scorgere una donna esibirsi in un sensuale spogliarello. L’eccitazione di Jake per questa scoperta si trasforma presto in angoscia quando, da dietro la lente, scorge un uomo dal volto sfigurato minacciare e poi inseguire l’oggetto del suo desiderio.
A fare da sfondo agli eventi è Hollywood, scenografia ingombrante e artificiosa, espressiva come un personaggio che rivendica spazio in ogni inquadratura. È la dimensione del set cinematografico a invadere il campo fin dal primo istante. È chiaro soprattutto se si guarda agli edifici, alle architetture moderne, geometriche, squadrate. Un esempio è l’ipnotica sequenza dell’inseguimento a metà del film, prima attraverso i negozi di un centro commerciale e poi in un surreale scenario dove, da un hotel a scaloni a picco sul mare, si passa attraverso dei tendoni posti a scacchiera sulla spiaggia fino alla fine della corsa in un’inquietante galleria.
Questa tensione al pirotecnico, all’eccessivo, seppur sempre con l’eleganza propria del grande maestro, ha come motivazione, da un lato, la solita ironia con cui il regista non vuole prendere sul serio la narrazione, ma ne denuncia fin da subito l’aspetto finzionale. Dall’altra parte trasforma il film in un vero e proprio sogno, fatto di ambientazioni surreali, coreografie improvvise, come quella iconica in cui Jake diventa protagonista di un film porno al ritmo di Relax di Frankie Goes to Hollywood, e di incubi, angoscianti e minacciosi.
È l’andatura spezzettata e caotica del sogno a definire la parabola narrativa di Jake, in viaggio attraverso l’immenso parco divertimenti hollywoodiano. Un mondo di cartapesta dove il confine tra reale e artificiale svanisce in una dissolvenza incrociata. Allo stesso modo Jake resta invischiato in eventi dove nulla è ciò che sembra, dove tutto è doppio e cela un’altra faccia. L’unico che di faccia sembra averne solo una è proprio lui, incapace di essere attore, non solo sul set, ma anche nel senso etimologico del termine, cioè incapace di agire. Un attore deve necessariamente portare una maschera e Jake invece è esattamente come sembra: un uomo ingenuo e impacciato a cui “piace guardare”, come suggerisce lui stesso nella scena del porno, dove non a caso interpreta a meraviglia ancora una volta se stesso. Un uomo vero in un mondo finto: non può che finire in tragedia.
È la ricerca della verità a portarlo verso la luce, a trasformarlo, a differenza di Jack Terry in Blow Out, da spettatore passivo a protagonista in grado di plasmare la realtà: a renderlo finalmente corpo vivo. Così come il gioco di ombre non funziona più nel momento in cui si guardano le mani che lo mettono in moto, la claustrofobia di Jake svanisce quando viene meno la finzione. E il nostro protagonista può animarsi, saltando fuori dalla tomba, rivendicando la sua esistenza.
Omicidio a luci rosse finisce in questo modo per smascherare il grande cinema hollywoodiano in un gioco di inganni e suggestioni dove persino il più spietato omicidio ha il sapore della farsa. Uomo reale in un mondo di plastica, Jake Scully è la scheggia impazzita che fa saltare il tavolo, introducendo un’ingenua e respingente autenticità tra le scenografie patinate della grande industria.