Sofferenza e patimento interiore sono da sempre temi centrali della letteratura russa e Otec Sergij di Protazanov, tratto da un romanzo di Tolstoj, ne è un classico esempio. Figura centrale del racconto è il Principe Kasatskij, un uomo fiero e bizzoso che serve Nicola I come comandante delle guardie. La sua tranquilla vita di ufficiale viene stravolta quando scopre che la donna che ama è stata amante del suo imperatore. Decide allora di abbandonare tutto e diventare frate col nome di Padre Sergio. La sua conversione non sarà però esente da tormenti interiori: continuamente verrà tentato dal peccato, in particolare da quello carnale, costringendolo presto a trasferirsi in una città isolata e vivere come eremita.
Ma le prove per lui non sono finite: una donna di alto bordo decide di andare a visitarlo con il chiaro scopo di tentarlo. Per resistere Padre Sergio decide di tagliarsi un dito, soffocando il richiamo verso la perdizione con il dolore fisico. La giovane rimane talmente colpita dal gesto del frate che si rinchiude in un convento facendosi monaca. La fama del principe si diffonde per lo stato e pellegrini da tutto il mondo gli richiedono guarigioni miracolose e preghiere. Ma la passione non è terminata: un giorno un mercante porta da lui la figlia, la cui pazzia l’ha resa lasciva, con la speranza di vederla guarita. È la goccia che fa traboccare il vaso e così Padre Sergio cede al richiamo della carne. Fugge, allora, dal suo convento e conduce una vita errabonda, chiedendo elemosina e leggendo la bibbia ai più poveri. Nel finale verrà arrestato e inviato come vagabondo in Siberia dove forse, attraverso il lavoro forzato, potrà finalmente espiare la colpa che lo divora nell’animo.
Il film si regge interamente sulle spalle di Ivan Mozžuchin, o Mosjoukine nella versione francesizzata, capace di essere credibile in due ruoli incredibilmente diversi tra loro: quello del giovane rampollo dell’alta società e quello di padre Sergio, uomo pervaso da una forte religiosità ma anche da patimenti che ne tormentano l’animo. A seconda dello stato d’animo del protagonista, Mozžuchin alterna movimenti lenti e studiati, ad altri rapidi e sofferti. Ma più che la gestualità manuale, è la mimica facciale a dare profondità allo stile di recitazione dell’attore e in particolare la sua capacità di rendere vivo il proprio sguardo, vero specchio delle emozioni del protagonista. Dopo cento anni, Padre Sergio è vivo più che mai!