Che Abel Ferrara stia vivendo una vita cinematografica libera e slegata da gioghi produttivi e convenzionali lo dimostra la varietà stilistica dei progetti che hanno seguito il suo trasferimento da New York a Roma. Una scelta di vita dettata sia da motivi economici — come rivelò al New Yorker, pare che in Europa gli risulti decisamente più facile trovare finanziamenti per i suoi film — che da motivi creativi.
Non è un caso che molti dei suoi lavori dell’ultimo decennio rappresentino indagini di vita legate alla nostra penisola, con angolazioni e punti di vista sempre inediti. Napoli Napoli Napoli, Pasolini, Piazza Vittorio e i diversamente autobiografici Tommaso e Sportin’ Life, con tutti i loro “alti e bassi”, celebrano tanto una ri-connessione con le proprie radici che una ritrovata semplicità nell’utilizzo del medium cinematografico, mettendo costantemente al centro la curiosità e la libertà dello sguardo.
Ma questa stessa libertà rischia di essere così tanto legata allo sguardo di Ferrara (e basta) da rendere sempre più faticosa una connessione col pubblico, oltre una sincera devozione. E se nel 2020 avevamo salutato il bizzarro Sportin’ Life come un interessante divertissement del regista tra cinema e musica, il suo rapporto privilegiato con Willem Dafoe e la vita in piena emergenza COVID-19, il nuovissimo Padre Pio (in concorso alle Giornate degli Autori per Venezia 79) rischia di risultare davvero impenetrabile, più che ostico.
Scritto a quattro mani con il bravissimo Maurizio Braucci (già sceneggiatore di Gomorra, La paranza dei bambini, Martin Eden, e oggi alla terza collaborazione col regista italo-americano), Padre Pio è una storia che procede su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai se non su un territorio storico-geografico comune: da un lato la passione del santo (interpretato da Shia LaBeouf) e dall’altra la cronistoria del massacro di San Giovanni Rotondo del 14 ottobre 1920.
Di fatto, il film è un alternarsi tra lo spaccato politico-sociale del luogo — la vita contadina, le tensioni tra padroni e braccianti, la feroce repressione dei carabinieri dopo la vittoria dei socialisti alle elezioni — e i pensieri e i conflitti spirituali di Padre Pio, qui in un ritratto emotivo, più che biografico, tratto direttamente dai suoi scritti.
Una scelta narrativa peculiare che sembrava destinata a confluire in una polemica accesa — negli anni Sessanta, il quotidiano socialista Avanti! accusò apertamente Padre Pio di stare dalla parte dei cosiddetti “Arditi d’Italia” durante gli scontri con i socialisti — ma che nel film di Ferrara non trova una connessione, né una vera risoluzione. E l’estraneità ai fatti è probabilmente l’unica scelta possibile, se ci basiamo sui documenti a nostra disposizione e su quello che è il desiderio del regista: “mostrare ciò che realmente accaduto”, al punto di definire il suo Padre Pio un vero e proprio “documentario”. Ma è una definizione che spiazza ancora di più a fine visione, quando si cerca di rimettere insieme i pezzi di un film che frammenta, più che ricostruire, e che confonde, più che sbalordire.
A disorientare non è tanto la scrittura, ma proprio la messa in scena. Zoppicante, esitante, capace di perdere presa tensiva nei rari momenti di maggiore pathos. Attraverso slow-motion fuori sincrono e momenti surreali davvero nebbiosi nel loro voler di-spiegare la sfera della spiritualità, la rappresentazione si rivela inadatta a intrecciare tanto le aspirazioni del “reportage” storico quanto quelle più intime del tormento cristiano.
E Shia LaBeouf, certamente interessante ed eccessivamente furioso nella sua ambiguità, rischia per queste continue incertezze di essere relegato al ruolo di “fantasma”, una figura evanescente totalmente aliena dalle alterità fuori dalla sfera dell’ego. Si ricerca costantemente (invano) una dimensione “altra” che stia “al di fuori”, e che non sia solo la sua controparte malvagia — le diable, probablement: ora rappresentato da un cane con occhi infuocati, da una figura inquietante nell’ombra o da un’austera Asia Argento, penitente incapace di vera compassione.
Il Padre Pio di Abel Ferrara sceglie di non uscire mai dalle sue stanze. E a ben pensarci, forse non è mai davvero uscito dalle stanze della mente del regista: nient’altro che un’idea, potente e intrigante sulla carta, molto debole sullo schermo. Un film destinato a spezzarsi in un duplice registro, non trovando la forza necessaria per valicare i confini di una libertà che in Abel Ferrara è da sempre viva, riconoscibile, e che oggi stringe la narrazione in una morsa più convenzionale di quanto non meriti.