Le donne di Kinuyo Tanaka
La prima metà della rassegna bolognese dedicata alla riscoperta dell’autrice nipponica Kinuyo Tanaka, ha presentato il restauro di tre sue opere. Conosciuta prevalentemente, in occidente, per la sua fruttuosa e duratura collaborazione con Mizoguchi, questo mese in cineteca viene esplorata la sua filmografia da regista. Nonostante Tanaka fosse una celeberrima diva, in patria, sin dagli anni Trenta, il suo passaggio alla regia suscitò diverse ostilità (tra cui la più feroce, curiosamente, ad opera dello stesso Mizoguchi), mentre altri importanti autori dell’epoca (Ozu, Naruse, Kinoshita) la sostennero ed elogiarono i suoi lavori.
“Flee” tra animazione, documentario e memoria del trauma
Disegnando le scene dalla prospettiva di un’immaginaria telecamera live-action, il film segue molte convenzioni visive della forma documentario, puntellando la narrazione con canonici filmati d’archivio. Questo fornisce il contesto storico e, combinato con l’animazione realistica, colloca la storia personale di Amin all’interno delle realtà sociali e storiche condivise da molti richiedenti asilo in fuga dall’Afghanistan alla fine degli anni ’80. Sfruttando il filtro delicato dell’animazione, Flee presenta una storia commovente di un uomo a cui viene data un’altra possibilità di vivere, amare e prosperare e il tremendo prezzo pagato in anticipo per ottenerla.
“Il ritratto del duca” e il potere della leggerezza
Più che di The Queen, Il ritratto del duca di Roger Michell ha il tono di Lady Henderson presenta, sempre di Frears, sotto i cieli di Le ceneri di Angela di Alan Parker, di cui si propone quale controcanto lieve e solare. E trova un’occasione per inscriversi nella migliore tradizione del cinema britannico, tracciata, va detto, più dai due più celebri colleghi che non da lui. Peccato, quindi, per il regista del non indimenticabile Notting Hill, morto poco dopo la fine delle riprese di The Duke, non essersi potuto godere il favore tributato al suo piccolo brillante film, forse il migliore della sua carriera.
Da Maidan alle bombe. Il cinema che ha raccontato il conflitto in Ucraina
Viaggio attraverso i film dedicati alla realtà ucraina prima dello scoppio della guerra. Questo conflitto non è sorto dalla sera alla mattina, e questa guerra a bassa intensità è stata già vissuta e osservata da tantissime persone nel mondo, tra cui anche una schiera di cineasti che hanno deciso di raccontarne le sfumature e gli effetti. Film visti ai festival – in particolare alla Mostra del Cinema di Venezia – e titoli che non pensavamo sarebbero diventati così attuali. Il cinema fa il suo dovere, diventando strumento di espressione per chi queste storie le vive sulla propria pelle, e il minimo che possiamo fare è non sottrarci alla consapevolezza che queste opere ci portano.
“Red” e la svolta della Pixar
Red è un film delizioso e colorato (a cominciare dal titolo, i colori hanno un ruolo ben preciso e mirato lungo tutta la narrazione), divertente e terrificante al tempo stesso (le sequenze di stress sono probabilmente le migliori nell’insieme): un film che non ha paura di fare i conti con argomenti sino a oggi considerati tabù, soprattutto per il cinema d’animazione mainstream, e che proprio attorno a questi costruisce i suoi maggiori punti di forza. Esattamente come Enrico Casarosa, anche Domee Shi sente l’esigenza di guardarsi indietro, di portare in scena la sua memoria, il suo vissuto.
Kinuyo Tanaka radicale e umile
Kinuyo Tanaka ha attraversato la storia del cinema giapponese dal muto agli anni Settanta. Tra le artiste più celebri del suo tempo, ha collaborato regolarmente con maestri come Yasujiro Ozu, Mikio Naruse, Keisuke Kinoshita, ed è stata la musa di Kenji Mizoguchi, con cui ha girato quindici film. Tra il 1953 e il 1962, in un’industria quasi del tutto priva di cineaste, Tanaka si dedica anche alla regia e dirige sei film con protagoniste femminili determinate e in lotta contro le avversità. Questo aspetto della sua carriera è però rimasto a lungo escluso dalle storie del cinema giapponese e mondiale. È tempo di rimediare e riscoprire il suo ruolo di pioniera.
“Red Rocket” e la disillusione dell’altra America
Per quanto disillusa, l’America descritta da Baker resta prigioniera di una “coazione a sognare” veicolata dall’urbanistica, dal cinema, dalla tv-spazzatura, che la rende vulnerabile a tentativi di corruzione dall’esterno. Non a caso è frequente il tema dello sfruttamento sessuale e ancor più quello della pedofilia (le scene di adescamento). In un’unica gigantesca messa in scena del detto “non accettare caramelle dagli sconosciuti”, il grooming si fa metafora universale delle insidie tese a una provincia sperduta e bambina da un paese falsamente camuffato da bomboniera, popolato da coloratissime gelaterie e negozi di ciambelle sul cui sfondo fumano le ciminiere di scenari industriali da incubo.
“Cyrano” e il musical cavalleresco
Il Cyrano di Wright funziona perché il regista capisce a fondo il sentimento del racconto originale, e lo traspone con un senso dello spettacolo coerente con la propria visione. Quando alla sceneggiatura manca la parola, la musica sopperisce; quando anche l’orchestrazione si fa piatta, ecco che l’intrattenimento gentile di Wright la risolleva. Il suo ultimo film lo proclama come uno degli artigiani più onestamente romantici del settore: Cyrano canta la propria teatrale verità in forma di artificio cinematografico, leggero e garbatissimo, in uno spettacolo delizioso a cui sarebbe un peccato non prestare cuore e orecchie.
“The Batman” smisurato, lugubre e solenne
The Batman non è una “fiaba oscura” né “il Batman definitivo”, ma un ibrido che si assesta con timida sicurezza tra il cinecomic cosiddetto e la New (New-New) Hollywood. Una liturgia noir che suggerisce l’hard boiled con meno compassione e realismo del Joker di Todd Phillips, senza dimenticare le frustrazioni e le nevrosi del contemporaneo. E sulle variazioni dell’Ave Maria di Schubert, diventa ancora più appropriato perdersi nell’altro tema del film, Something in the Way. Sono i Nirvana più funerei che Reeves sceglie come manifesto del suo Batman: familiare, solenne, ma libero di de-costruire un’intera mitologia.
“Il fascino discreto della borghesia” 50 anni dopo
Il fascino discreto della borghesia resta un film emblematico, seminale, lontano da ogni possibile (fin troppo semplicistica) catalogazione. Il film di Luis Buñuel, complice la sceneggiatura scritta a quattro mani con Jean-Claude Carrière (entrambi creeranno le basi per quello che sui può definire il “nuovo surrealismo cinematografico”) non è altro che un ritorno alle origini. Non solo a quel Un chien andalou (1929), folle esperimento che andava addirittura già oltre i dettami surrealisti, diretto e interpretato insieme a Salvador Dalí, ma anche e soprattutto a una sorta di esplosione metaforica (visiva e narrativa) del successivo L’ âge d’or (1930).
Kubrick, New York e la vita dello spirito
La produzione fotografica di Stanley Kubrick sta ricevendo un interesse sempre maggiore da parte della critica: diverse mostre, tra cui quella a Trieste al Magazzino delle Idee da poco conclusa, e un importante catalogo edito da Taschen celebrano le fotografie scattate dal giovane Kubrick, principalmente a New York dal 1945 al 1950, durante gli anni di lavoro per la rivista Look. Già in passato erano state apprezzati singoli scatti di questo periodo, come la celebre prima foto venduta alla rivista, “April, 1945”, in cui un inconsolabile giornalaio è circondato da titoli che annunciano la morte di Franklin D. Roosevelt.
“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e su una nazione irrisolta
“Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile”, urla il “dottor” Volonté, ai suoi uomini, eletto alla direzione dell’ufficio politico (oggi la nota Digos). Il pericolo dell’autoritarismo, si sprigiona in questa pellicola, un pericolo, che Petri in un’intervista paragona ad “un veleno che serpeggia nelle nostre psicologie”. L’omicida è parte attiva dell’indagine, l’omicida è servo della legge, ma mentre si esercita a maneggiare il potere, vuole anche tastarne il limite fornendo indizi e tracce quasi alla ricerca di una pervasione nel proprio rimorso e senso di colpa.
“L’origine del mondo” è quella di ogni male
L’esordio di Lafitte alla regia non ha le ambizioni narrative e stilistiche dei film corali del suo collega Guillame Canet che lo hanno co-protagonista, Les Petits Mouchoirs (2010) e Nous finirons ensemble (2019), ma L’origine del mondo, previsto prima per la selezione ufficiale del Festival di Cannes 2020, uscito poi a singhiozzo solo alcuni mesi dopo in Francia e in Belgio fra chiusure ed aperture pandemiche e disponibile oggi su piattaforma, ha il pregio di presentarsi suo malgrado come il perfetto passatempo da confino Covid.
“L’accusa” e il fraintendimento dell’equidistanza
Già dalla presentazione a Venezia 2021, ha causato molte polemiche il nuovo film di Yvan Attal, L’accusa, evidentemente ben conscio del ginepraio nel quale si stava andando a infilare eppure zelante nell’argomentare in lungo e in largo sulle famose “zone grigie” del consenso sessuale, cifra distintiva della Francia nel dibattito globale sul #MeToo. Attal parte dal romanzo Le cose umane di Karine Tuil ben attento a non privilegiare alcun punto di vista, interessato a portare in campo il più ampio spettro di opinioni possibile e a filmarle senza commenti o sottolineature d’enfasi – con tratti sorprendentemente simili al recente analogo processuale La ragazza con il braccialetto.
“The Falls” e la parabola dell’isolamento
Dietro la narrazione canonica dei racconti di formazione e coming of age dei protagonisti, Chung Mong-hong indaga quindi le dinamiche e i rapporti familiari intrecciando, in The Falls, il proprio linguaggio filmico e narrativo con un’ottica allucinatoria, onirica, cogliendo in tal modo in maniera più acuta e profonda l’elemento perturbante che invade l’animo dei protagonisti nel constatare che chi ci è più vicino ci è diventato alieno e che la separazione e il distacco hanno avvelenato i rapporti apparentemente più intimi e affettivi e hanno avvolto la stessa interiorità dei personaggi.
“Occhiali neri” e le tenebre rétro di Dario Argento
Questo Occhiali neri farà storcere qualche naso, perlopiù in quanto espressione di un cinema di genere relegato al passato o a gruppi di appassionati, ma era dai tempi di Nonhosonno che Argento non dimostrava tanta sicurezza. Chi cerca un clue puzzle rigoroso, o complessi intrecci basati sulla psicologia deviante, farà meglio a cercare altrove. Già dall’esordio con L’uccello dalle piume di cristallo, oltre mezzo secolo orsono, i personaggi di Argento subiscono il processo creativo più che avvantaggiarsene, complici sceneggiature non prive di sbavature e un generale scarso interesse nella direzione degli attori.
“Leonora addio” oltre Pirandello e dentro la memoria dei Taviani
Primo film diretto unicamente da Paolo Taviani dopo la scomparsa del fratello Vittorio, Leonora addio è un intenso e complesso omaggio a Pirandello, che attraversa tutto il cinema dei Taviani dall’indimenticato Kaos (1984) al meno riuscito Tu ridi (1998), ma anche all’altro grande filone tematico che ha, da sempre, interessato i due registi: il cinema militante e la cultura antifascista e resistenziale italiana, da La notte di San Lorenzo (1982) fino a Una questione privata (2017). In ultima analisi, il film è una riflessione sentita e personale sulla memoria e sul ricordo, cinematografico e personale, artistico e biografico, storico e di celluloide.
“L’ombra del giorno” e del fascismo
Con L’ombra del giorno Giuseppe Piccioni gira un film che torna a parlare di fascismo, ma lo fa con una attenzione particolare alla possibile rilettura della storia in chiave attualizzante, suggerendo un unico comun denominatore fra due epoche storiche (i primi anni ‘40 del ‘900 e l’oggi) quasi involontariamente affiancate in un parallelismo emotivo/cognitivo, quello di un esasperato conformismo portato alle estreme conseguenze. Del resto L’ombra del giorno è stato girato durante il lockdown 2020 in un’Ascoli deserta, rappresentata dalla grandezza monumentale di una delle più belle piazze rinascimentali, piazza del Popolo appunto, che qui assume un sapore quasi internazionale.
“Il padrino” 50 anni dopo. Antropologia del crimine e del cinema
Il padrino non è solo un film che narra le vicissitudini della Famiglia Corleone, ma innesca anche tra le fila del discorso un delicato ragionamento sulle istituzioni occidentali e sul capitalismo come patto economico-sociale, avvalendosi dell’american dream. Si pensi in tal senso all’acuta frase “’A pistola lasciala, pigliami i cannoli”, dopo l’omicidio, in campo lungo e la Statua della Libertà a vegliare inerme in profondità di campo. Ecco allora che l’intermezzo siciliano diviene un ritorno alle radici, un paesaggio epico intriso di pathos, un Olimpo mitico (non appare casuale la scelta del nome Apollonia per la moglie di Pacino), dove la mafia e i suoi codici centenari nascono per alludere ad altro.
“Martin Luther King VS FBI” e il nemico dietro la porta
Montatore noto soprattutto per le numerose collaborazioni con Spike Lee nonché affermato documentarista, Sam Pollard ha da sempre ripercorso con il suo cinema vicende individuali e collettive che rappresentano capitoli portanti della storia nazionale afroamericana. Martin Luther King VS FBI persegue il medesimo intento, omaggiando una figura essenziale della politica e della società statunitense inspiegabilmente trascurata da Hollywood. Basato sui documenti dell’FBI recentemente de-secretati in attesa che altro materiale venga reso pubblico nel 2027, il lavoro di Pollard ricostruisce con cura minuziosa le forme di spionaggio e ricatto che l’ufficio federale ha adoperato ai danni del leader nero.
“Ma papà ti manda sola?” cinquant’anni dopo
Con Ma papà ti manda sola? Bogdanovich omaggia e si ispira alla screwball comedy, la commedia svitata portata in auge durante gli anni trenta e i primi anni quaranta da registi come Frank Capra e Howard Hawks. È proprio a Susanna! di Hawks che guarda maggiormente per la premessa narrativa, riprendendo la figura del professore con la testa tra le nuvole, sul punto di sposarsi e in caccia di un finanziamento per i suoi studi, che incontra una donna eccentrica ed esuberante che si innamora di lui, trascinandolo in folli avventure. A fianco della linea narrativa principale si sviluppa una sorta di sotto-trama legata a quattro valigette identiche, appartenenti a quattro diversi proprietari, che vengono ripetutamente confuse.