Passano gli anni e con gli anni non passa, dopo ogni nuovo film di Sorrentino, l’impressione di un equivoco, scomodo e duraturo. Nonostante le dichiarazioni d’amore e le reiterate professioni di fede – dalle frasi testamentarie del regista interpretato da Harvey Keitel in Youth all’aforisma sul cinema che non serve a niente ma almeno distrae dalla realtà, perché “la realtà è scadente”, attribuito a Fellini in È stata la mano di Dio – quello di Sorrentino si è rivelato man mano un cinema sempre più sfiduciato e a volte, diciamolo pure, ingiustificatamente pigro.
Al di là della sua svogliatezza personale, rivendicata con malizia tattica nelle interviste promozionali, da circa tre lustri a questa parte a Sorrentino sembra mancare proprio la fiducia nell’autonomia del cinema come dimensione alternativa a tutto il resto.
Controcanto al femminile de La grande bellezza sotto forma di recupero della narrazione epico-vignettistica delle serie papesche e di Loro, Parthenope è l’epitome dei tic di un regista che realizza film scritti per essere letti e montati per essere ascoltati, più che girati per essere visti. Un esempio minimo ma non casuale: ogni volta in cui una mano potrebbe restare vuota; uno sguardo sfuggire ai contorni sempre così definiti e glamour della messa in scena made in Saint Laurent (dopo Almodóvar prosegue la vaccarellizzazione del cinema europeo); un dialogo rimanere in sospeso lasciando finalmente un po’ di mistero ai margini della vita di Parthenope e di chi la adora, allora compare tra le dita in primo piano una sigaretta, e insieme al rumore dell’accendino si sente pronunciare qualche battuta sentenziosa (spesso proveniente dall’arsenale delle risposte possibili alla domanda “A cosa stai pensando?”) o parte una canzone italiana tanto adatta quanto ridondante (qui Cocciante e Avitabile come già Venditti, Concato e Pino Daniele in passato).
Oppure in scene già sovraccariche di pathos erotico si colgono riferimenti letterari prevedibili – le pagine della Pelle di Malaparte sui bassi napoletani prima, durante e dopo l’accoppiamento tra figli di clan camorristici rivali – e cinematografici inarrivabili – affascina la conturbante sequenza di Flora Malva che, nuda tra le nebbie domestiche, avanza una terminale e disperata seduzione saffica, ma non basta il decadentismo di design per rifare Fedora.
A differenza che nelle idee di Billy Wilder (giusto per citare un grande “antropologo” secondo il professor Marotta), nelle trovate di Sorrentino non si percepisce come e perché il tempo e lo spazio cambino le cose della vita – strano come in un film che si vorrebbe sulle radici mi(s)tiche di Napoli, della città sopravviva il panorama cartolinesco e folkloristico (il mare nel golfo, il miracolo del sangue di San Gennaro, il terzo scudetto…) – né, viceversa, come il cinema riesca a stravolgere il tempo e lo spazio anche quando non sembra.
Sarà che nelle immagini di Parthenope più ancora che nei film precedenti si avverte la ricercatezza dei movimenti di macchina e non una loro profonda origine emozionale. In effetti, da This Must Be the Place in poi, da quando cioè il cinismo lirico dei primi quattro, notevoli film è stato sostituito alternativamente da un sentimentalismo ammiccante o da un effettismo citazionista, alle inquadrature di Sorrentino non è quasi più permesso di esprimere da sole i temi presunti della sua filmografia: lo strazio del soggetto di fronte al tempo che indifferente sciala e imbruttisce, la scoperta tardiva di tutte quelle cose, vane ed essenziali, che abbiamo perduto senza rendercene conto.
Sarebbero poi gli stessi pensieri che si affacciano alla mente di Parthenope, la quale non a caso alla fine ha il volto di Stefania Sandrelli, tormentato di frivolezza. Ma una rivisitazione in chiave flegrea di Io la conoscevo bene esiste già: è un film bello e cavernoso, Per amor vostro di Giuseppe Gaudino, forse uno dei pochi antidoti adeguati, oggi, ai marchi di fabbrica utili a esportare il cosiddetto “cinema italiano” nei festival.
D’altronde a Sorrentino va riconosciuta una contraddittoria contentezza nel fare film, che magari lo costringe a un’onestà involontaria. Se certi appelli alla stanchezza del mondo – come quello del cardinale Tesorone alla solita corte di mummie ingioiellate prelevate dalle sceneggiature di Fellini-Zapponi – non echeggiano del tutto a vuoto, è perché descrivono con consapevole (?) esattezza la situazione di un film futile come Parthenope.
I mondi scritti e diretti da Sorrentino sono veramente stanchi, tanto che hanno costantemente bisogno di essere puntellati da impalcature verbali o figurative, plateali fino al patologico. Così il film finisce per denunciare la propria sindrome da simbolismo elefantiaco nei passaggi pseudo-fiabeschi della prima e della penultima scena: dalla carrozza che sarà il letto di Parthenope alla comparsa del figlio di Marotta, dove il già ingiustificato onirismo dei tanti animali visti nelle prove precedenti (bisonte in This must be the place, giraffa ne La grande bellezza, rinoceronte in Loro) lascia il posto a una grossolana parodia del meraviglioso.
Triste paradosso, per un autore che, almeno nelle parole del Maestro Mimmo Repetto, immaginario prefatore del romanzo Hanno tutti ragione, ammetteva di sopportare soltanto una cosa: «la sfumatura» (anche in quel caso, d’altra parte, si trattava di una chiusa memorabile sì, ma presa in prestito dall’ossessione primaria di Proust, la nuance).
Da amante deluso, che ripensa all’entusiasmo con cui neanche quindicenne uscì dalla sala dopo aver visto Il divo e si ricorda ancora di cosa lo colpì nella locandina de Le conseguenze dell’amore appesa sotto casa e per anni ha citato a memoria con gli amici certe scene de L’uomo in più e de L’amico di famiglia, chi scrive è costretto a chiedersi che cosa è rimasto dopo quei film.
La domanda è molto sorrentiniana (in fondo, di alcune cose importanti ha saputo parlarci, e non poco), la risposta non saprei: sono rimaste molte, troppe scene che una dopo l’altra si assomigliano, ma di quel cinema passionale e spietato non è rimasto pressocché nulla.