Una spinta inavvertita, un cocktail Paradise che trabocca dalla sua coppa e un uomo e una donna che si incontrano per caso in un bar di Hong Kong: è amore a prima vista e senza speranza, ma durerà per sempre. Dan (William Powell) è un assassino in fuga dalla sua condanna a morte e Joan (Kay Francis) è una malata terminale ribelle, decisa a godersi ogni minuto di vita che le rimane. Ognuno di loro non sa del destino dell’altro e dopo il primo incontro fortuito si ritrovano su una nave diretta a San Francisco: lui è stato arrestato da un poliziotto che lo scorterà in carcere, ma che gli permette di non indossare le manette, e lei è diretta a un sanatorio e viaggia in compagnia di un preoccupatissimo medico personale.
Con Amanti senza domani (titolo italiano poco felice rispetto all’originale e più neutro One Way Passage) Tay Garnett, sceneggiatore e prolifico regista – suo Il postino suona sempre due volte con Lana Turner – firma nel 1932 un piccolo gioiello in bianco e nero di soli sessantotto minuti: una commedia romantica e sofisticata, che richiama certi toni di Lubitsch, ma anche drammatica, che tratta temi pesanti come macigni – la malattia, la prospettiva di una morte prematura, l’assenza di futuro – con incredibile eleganza, leggerezza e ironia, senza scadere mai nella superficialità. Il film, che vanta anche un’ottima sceneggiatura, vinse l’Oscar nel ’34 come miglior soggetto.
Al mestiere e al talento di Garnett, che padroneggia il cuore e lo sviluppo della vicenda ma anche i dettagli, ad esempio mettendo i movimenti di macchina al servizio della narrazione con grande naturalezza – si vedano la carrellata iniziale lungo il bancone dell’italian bar o il salto nell’acqua dalla nave – si unisce la bravura, la bellezza e l’eleganza innata dei due protagonisti, che il regista valorizza con un’attenta scelta dei costumi. William Powell è l’assassino meglio vestito della storia del cinema e la sceneggiatura asseconda la caratteristica del personaggio: la prima richiesta di Dan al poliziotto che lo arresta e gli comunica il viaggio via nave verso il carcere è quella di poter recuperare tutti i suoi completi. L’avvenenza di Kay Francis è messa in risalto da una girandola di cambi d'abito: indimenticabile il suo vestito da sera nero con una cascata di brillanti che cadono a T sulla schiena nuda.
Accanto ai due protagonisti, Garnett schiera poi ottimi comprimari. Aline MacMahon interpreta Betty, una truffatrice di professione che si finge contessa ma alla fine si innamora di Steve, il poliziotto (Warren Hymer). Il famoso caratterista Frank McHugh veste invece i panni di Skippy, un simpatico ladruncolo ubriacone che con le sue gag allenta il tono drammatico di fondo. Betty e Skippy, amici di vecchia data, uniranno le forze – e i pochi soldi che riescono a estorcere ai passeggeri della nave – per consentire la fuga a Dan e dare così un barlume di speranza ai due amanti.
Ma coerentemente con le premesse del film in questa storia non c’è spazio per nessuna speranza né per alcun canonico happy end. Per ribadire quanto anticipato all'inizio, Garnett usa una delle prime sequenze ribaltandola: la mano destra alzata di Dan, che sta salutando Joan mentre esce dal bar dove l’ha conosciuta, diventa improvvisamente un “mani in alto” poiché Steve l’ha rintracciato e gli sta puntando una pistola alle spalle. Specularmente, poco prima dello sbarco, quando Joan si affanna correndo sulla nave per dare l’ultimo saluto a Dan, alza la mano destra mentre il destino la aggredisce di spalle.
La dimensione che hanno creato e in cui vivono i due amanti è ormai qualcosa di inscalfibile. Il loro appuntamento mancato a un veglione di capodanno è una delle scene finali più belle della storia del cinema che sorprende e commuove gli spettatori: per non togliere la sorpresa diciamo solo che il nome del cocktail che Dan e Joan bevono al loro primo incontro non è scelto a caso e che il loro rituale di rompere i bicchieri dopo aver bevuto diventa immortale.
In poco più di un’ora Garnett ci fa entrare nella storia di Joan e Dan e ci parla di bellezza, di gioventù, di morte, di destini spezzati, del dolore di non poter fare progetti e di sentimenti destinati a non morire. Ma lo fa in modo lieve, senza alcuna retorica, con il sorriso sulle labbra e con il coraggio e la lucidità di chi sa ma decide di disporre del tempo rimasto in modo pieno e consapevole, guardando in modo diverso alla parola fine.
Questo articolo è dedicato alla memoria di Filippo.