Something to Live For, qualcosa per cui vivere (in italiano Perdonami se ho peccato): ma cosa? Lo è stato l’alcol, a lungo, per Alan Miller (Ray Milland), un pubblicitario newyorkese ormai liberato dal demone della dipendenza ma che nelle sue confortevoli mura domestiche, dove recita la parte del marito fedele e del padre amorevole, sembra sentirsi una marionetta imprigionata dalle aspettative sociali. Che la dipendenza non sia stata sconfitta ce lo dice il tintinnio del ghiaccio in un bicchiere seducente, dove la trasparenza di un innocente sorso d’acqua desta la reazione stupita di chi, intorno a lui, è convinto si stia scolando un bicchiere di gin liscio.
La dipendenza dell’alcol, l’aspettativa sociale e la ricerca di una nuova tentazione adrenalinica: sono proprio queste le croci di un uomo apparentemente controllato ma profondamente tormentato che George Stevens mischia in un cocktail sentimentale dal twist cupo, dove qualcosa per cui vivere diventa l’amore sfrenato per una donna. Miller infatti, ripulitosi, è diventato un volontario degli Alcolisti Anonimi e a qualsiasi ora squilli il telefono è pronto a chiudersi dietro la porta di casa per andare ad aiutare chi ne ha bisogno. Quando però si ritrova davanti, stesa nel letto, l’attrice Jenny Carey (Joan Fontaine), Miller intraprende il suo percorso di salvezza (dell’altro) e perdizione (di sé stesso), e a partire da una notte della ragione l’ossessione di un desiderio amoroso comincia ad assomigliare sempre di più al gusto proibito ma divino di un old fashioned.
Se il film prende spunto dall’esperienza personale dello sceneggiatore Dwight Taylor, al suo ricordo di una madre attrice ed alcolista, George Stevens lo fa totalmente suo infondendo ad ogni scena e ad ogni scambio dialogico il senso profondo di una messa in scena che è, oltre che filmica, una questione esistenziale. Per un regista che ha amato profondamente il pubblico e ha venerato più di ogni altra cosa l’esperienza spettatoriale, non potevano infatti che essere l’idea del gioco delle parti e di vita come palcoscenico le metafore perfette su cui giocare l’ambiguità già presente nella storia.
La casa è infatti un teatrino domestico: la moglie Edna (Teresa Wright) ha un presentimento, ma l’apparenza di normalità deve assolutamente essere recitata, affermata a parole e tramite gesti quotidiani e automatici. E così a partire da questo “palco”, se ne ritrovano molteplici: quello lavorativo, dove Miller deve presentare i suoi lavori davanti allo sguardo impassibile dei clienti. Quello mondano, dove a una festa in un appartamento alto borghese i due amanti fanno finta di non conoscersi. Si tratta dell’ambiguità di chi deve soddisfare delle aspettative (padre di famiglia, lavoratore efficiente Miller; dall’altra parte Jenny, la quale vuole a tutti i costi vestire i panni dell’attrice infallibile ma che, nel tentativo di vestire quella parte, arriva alla disperazione) senza potersi mai davvero soddisfare.
L’ambiguità è però già in termini una contraddizione, un regno dove è possibile tutto e il contrario di tutto. George Stevens ci immerge in un mondo emotivo di tensioni irrisolte, dove l’alcol è sia l’antagonista che il protagonista assoluto, un nettare che fa da aggregatore sociale e che scorre a fiumi davanti agli occhi di Miller e Jenny, che devono resistere alla tentazione. Siamo al limite della geografia dell’anima del noir classico, in spazi che se non sono allucinati sono comunque piena espressione estetizzata di un sentimento: tra ascensori “ingabbiati”, scale e l’angusta sala museale in cui osservare sarcofagi egizi, i protagonisti si muovono secondo un raggio d’azione limitato, hanno una smania vitale incredibile ma l’impossibilità di respirare davvero l’aria fresca della libertà. In tutto questo Stevens ci mette non il mélo ma l’ironia, un’ironia che viene dai dettagli e in cui il regista infonde sé stesso, la sua idea di umanità: siamo esseri contraddittori, forse solo l’ironia dei nostri gesti potrà salvarci dalla perdizione.
Se di platee nei film di Stevens se ne vedono tante, in Something to Live For la platea di un teatro assume una potenza schiacciante e dolorosa, dove si allineano perfettamente amore, dolore, finzione. Ed è proprio lì, con uno sguardo commosso, con un sorriso estatico e sofferto che Ray Milland, guardando oltre la macchina da presa, oltre il visibile, finalmente vede.