“...vorrei sentire un peso dentro di me, che mi levi questa infinitezza legandomi in qualche modo alla terra, a ogni passo, a ogni colpo di vento [...]
Vorrei poter dire: ora, ora, e ora. E non più da sempre, in eterno.”
Così Damiel, angelo sopra Berlino nel capolavoro del 1987 di Wim Wenders.
“Ma prima di ogni altra cosa, l'importante è imparare a vivere, a gustare questa vita. Respirare. Camminare. Afferrare oggetti.” Così lo stesso Wenders in un suo scritto dello stesso periodo nel quale ragionava sul suo film berlinese.
Rilette oggi queste parole, dopo la visione di Perfect Days, l'ultimo (magnifico) film del regista tedesco, risuonano con una sorprendente e vivificata intensità. Quasi un ideale dialogo a distanza sembra instaurarsi fra l'angelo berlinese che si innamora della realtà (fino a scegliere di abbandonare l'eternità per viverla davvero quella realtà, così da dare un senso più profondo all'atto di guardarla, sentirla e viverla) e Hirayama, protagonista di quest'ultima pellicola, meticoloso inserviente addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, così attento a vivere pienamente ogni singolo istante della sua vita.
Meticoloso perché intimamente convinto che il valore delle cose, dei gesti, delle azioni che si compiono sia nella qualità etica di quel gesto, risieda insomma in una dedizione totale al momento presente, al qui e ora, ad una sorta di cura per ogni dettaglio che compone la sua vita, che sia vaporizzare acqua su delle piantine conservate in uno spazio domestico quasi più ampio di quello riservato a se stesso, che si tratti di scegliere la musica con la quale affrontare la giornata o l'attenzione al lavoro che si sta svolgendo.
Quello che c'è fuori (“Was draußen ist” ripensando al Rilke delle Elegie, così caro a Wenders nella genesi de Il cielo sopra Berlino) è un mondo di cose da vivere appieno, dando dignità e rispetto ad ogni dettaglio della vita e non di meno, ad ogni persona; così Hirayama si accorge di un uomo che si muove come un mimo in un parco, un senzatetto probabilmente, una vita ignorata da tutti, che lui però saluta ogni volta, grato per il rinnovarsi di questo incontro di sguardi.
Allo stesso modo gioca a tris con uno sconosciuto lasciando la sua mossa successiva in un biglietto nascosto nei bagni, ascolta cantare in giapponese House of the Rising Sun da una signora che gestisce un ristorante, legge pagine di Faulkner prima di addormentarsi e sono tutti tasselli questi di una visione aperta, curiosa, interessata e disponibile alla vita. La stessa apertura che in qualche modo riserva alla nipote che lo viene a trovare scappando di casa, alla quale lui offre riparo e l'intima semplicità dei suoi gesti quotidiani, delle sue attenzioni. Una sorta di silenziosa e preziosissima lezione per la ragazza, “la prossima volta è la prossima volta, adesso è adesso” ripeteranno insieme allontanandosi in bicicletta, come a ribadire l'unicità e il valore che occorre dare e trarre da ogni istante vissuto.
Ma Wenders non è mai solo un cineasta (per chi scrive, fra i più grandi) è anche, e spesso soprattutto, un fotografo e i suoi film sono disseminati e intrisi di passione per le immagini. Perché giova ricordarlo qui? Perché nel film il nostro Hirayama, durante le sue pause pranzo, scatta delle fotografie. Una piccola macchina fotografica analogica compatta che lui tiene nel taschino e che tira fuori appena la fronda di un albero o qualche raggio di sole lo incuriosiscono.
Ascolta il frusciare delle foglie (il suono del foglie degli alberi mosse dal vento associato all'atto della fotografia rimanda in un curioso e significativo cortocircuito a Blow-Up di Antonioni, regista amato da Wenders col quale ha anche collaborato) e scatta dunque le sue foto, senza alcuna apparente pretenziosità stilistica, salvo però poi stamparle, osservarle e selezionarle, strappando quelle che non lo soddisfano, con grande cura e attenzione.
Le fotografie sono in bianco e nero e sono attente nel cogliere il gioco dialogico fra le luci e le ombre. Anche i sogni del protagonista ci vengono mostrati in bianco e nero, come fossero una sequenza di scatti dove il dato reale è sfocato, mascherato, nascosto ancorché presentissimo: sogni che nascono in qualche modo dall'ombra, sono popolati di ombre e all'ombra,in un modo un po' inquieto, ritornano.
In uno di questi sogni compare per un attimo anche la parola “ombra” dalla pagina di un libro, forse letta poco prima di addormentarsi, certamente una parola cardine, che non a caso viene mostrata risultando ben visibile a noi spettatori. In un film popolato di luce, è l'ombra infatti l'elemento centrale che dà rilievo e sostanza alle cose e alla vita, le zone ombrose, nascoste, intime, che si mostrano solo in dialogo con la luce, che altrimenti restano oscure e popolano i nostri sogni, le nostre immagini interiori.
Immerso nell'ombra resta ad esempio il passato del protagonista, di cui possiamo appena intuire qualcosa di oscuro ma ancora lancinante, in un abbraccio alla sorella, dolente e senza risoluzione. Ma di ombra si parla anche esplicitamente nel film, quando una persona appena conosciuta si confida con Hirayama dichiarando un male terminale e il rammarico per non aver vissuto abbastanza per poter rispondere ad alcune domande che resteranno per sempre inevase, perse in un vuoto temporale inesprimibile.
Una di queste domande, metaforica ed evocativa come poche altre, riguarda proprio l'ombra: chissà se un'ombra, sovrapposta ad un'altra, si scurisce? La spinta vitale di Hirayama li porta a provare e così sotto un lampione, giocando con le loro ombre, cercano di capire se ne deriva una terza più scura. Le ombre inesplorabili di due persone estranee, due umanità nascoste, diventano così per un attimo una zona abitabile.
Ancora una volta è l'apertura verso l'altro a sorprendere, il gesto di vicinanza che consente la possibilità di un contatto, attraverso un gesto di silenziosa comprensione. Con quest'opera Wenders firma forse la sua più ispirata dichiarazione di poetica, una sintesi felicissima di tutte le sue passioni, dei suoi tanti amori cinematografici (Ozu in primis, di cui questo film è anche un omaggio esplicito e commosso), letterari e musicali.
Si resta come frastornati dalla ricchezza umana di questo protagonista (Koji Yakusho giustamente premiato a Cannes come miglior attore) e dalla capacità di Wenders di far accadere le cose, senza forzature, con una discrezione anche stilistica centratissima e decisiva, totalmente al servizio di un pedinamento umano ed esistenziale. Di più, forse. Wenders mette in scena il suo amore per il cinema. Filma la sua urgenza di filmare ma senza peso, senza mostrarla, senza mostrarsi, al servizio di una visione, restando nell'ombra.