Trent’anni fa, per l’uscita di Piccolo Buddha, Fernand Denis scriveva che il film avrebbe sorpreso gli ammiratori di Bernardo Bertolucci, in quanto rottura radicale dell’immagine che si attacca al suo cinema. E sarebbe stato molto più appropriato dire che li avrebbe presi del tutto in contropiede, ammiratori e non, perché il terzo capitolo della cosiddetta “trilogia orientalista” si dispiegava fin dalle premesse come un alieno nella sua filmografia.
Fuori dall’epicità rigorosa de L’ultimo imperatore (1987), estraneo all’angoscia minimalista de Il tè nel deserto (1990), Piccolo Buddha si configura proprio come una favola, “un film per i ‘bambini’ di tutte le età". Un film sul buddhismo, certo, ma che rappresenta anche (e soprattutto) la chiusura di un cerchio. Il terzo capitolo – ideale, quasi inconscio – di un viaggio “alla scoperta di altri modi di pensare e, magari, di possibili alternative al vicolo cieco del consumismo sfrenato fornito dal modello occidentale.”
Queste parole di Fabien Gerard – l’“ombra” ricercatrice di Bertolucci, che contribuì in modo decisivo al soggetto di Piccolo Buddha – oggi risultano fondamentali per comprendere l’indagine di un regista che ha sempre rifuggito l’immobilità come una iattura. È quasi come se Bertolucci avesse visto nell’Oriente un modo per emanciparsi dalle disillusioni della borghesia italiana e dalla crisi morale del dopoguerra – collettiva, individuale – che aveva ampiamente sviscerato nei precedenti lavori. Più formalmente, da Prima della rivoluzione (1964) a La tragedia di un uomo ridicolo (1981).
Un magnetismo, quello per l’alterità orientale, che nasce nel 1963, quando Elsa Morante gli regala Vita di Milarepa, e che è destinato a crescere per invisibili vie. Negli anni ‘80, furono l’incontro letterario con Padmasambhava (il maestro che introdusse il buddhismo in Tibet), un viaggio a Kamakura e la scoperta dello Zen in Giappone, mediato dal cinema e dalla figura di Ozu. E poi l’avventura produttiva del cugino Giovanni, il Marco Polo di Giuliano Montaldo, primissima collaborazione tra una televisione occidentale e una cinese.
Un’esperienza decisiva che apre la strada all’avventura folle de L’ultimo imperatore, nato come prodotto seriale sulla carta – proprio sulla scia dell’opera di Montaldo – e pronto a svilupparsi come un autentico kolossal, grazie all’incontro con Jeremy Thomas (il “più illuminato dei produttori indipendenti”, come lo definirà Marcello Garofalo).
Dopo la consacrazione hollywoodiana del film con nove insperati premi Oscar, Bertolucci prosegue il suo percorso passando dalla Cina al Nordafrica, trasponendo – a suo personalissimo modo – l’impenetrabile romanzo di Paul Bowles, Sheltering Sky (Il tè nel deserto, appunto). È proprio durante la lavorazione di quest’ultimo, nel bel mezzo di un esistenzialismo ateo senza apparente via di scampo, che gli viene proposto un progetto sul Buddha storico, il principe indiano Siddhartha Gautama.
Ma l’idea di Bertolucci, che non può e non vuole replicare l’affresco storico di L’ultimo imperatore né la ricerca orrorifica di un valore profondo de Il tè nel deserto, è quella di ragionare sull’incapacità occidentale di contenere l’impermanenza, svelare una percezione superficiale dall’attitudine irrimediabilmente colonialista. Ed ecco che il termine “favola”, che per alcuni critici costituì un’arma dialettica contro la visione naïf di Piccolo Buddha, diventa l’unico modo credibile per Bertolucci di soffermarsi sull’infantilismo dell’Occidente nei confronti di una filosofia “altra”.
E il motore del progetto diventerà il complesso tentativo di costruire un ponte con la modernità. Laddove un disaccordo artistico rischierà di minare il “biopic su Siddhartha”, la notizia di un bambino spagnolo ritenuto la reincarnazione di un Lama tibetano riaccenderà nel regista un pulsante interesse per il film.
È così che in fase di scrittura a Bertolucci e a Mark Peploe viene affiancato Rudy Wurlitzer, già sceneggiatore di Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah e, soprattutto, grande esperto di buddhismo. Il trio non abbandona l’opportunità di raccontare la storia del Grande Buddha, ma decide di filtrarla attraverso gli occhi di un Buddha “più piccolo” – Jesse Conrad (Alex Wiesendanger), un bambino di Seattle che viene individuato come la possibile reincarnazione del Venerabile Lama Dorje.
Lo scetticismo e le reticenze dei genitori (Lisa e Dean, interpretati rispettivamente da Bridget Fonda e Chris Isaak) si ridimensionano nell’incontro con Lama Norbu (Ying Ruocheng, il Kublai Khan del Marco Polo di Montaldo e governatore della prigione ne L’ultimo imperatore) e il Bhutan, un universo che rimette in prospettiva quello materialistico in cui vivono.
Questa traccia finisce per incrociarsi con la storia di Siddhartha, interpretato da Keanu Reeves. Sulla scelta, Bertolucci si espresse così: “ha un’incredibile innocenza nel viso, nello sguardo, nel modo di muoversi. Anche nella parte del ‘ragazzo di vita’ un po’ shakesperiano di Gus Van Sant in Belli e dannati, sono stato subito colpito da quell’innocenza…”. Ed è proprio nell’innocenza che permea tutto il film – antica e moderna insieme – la chiave di Piccolo Buddha.
La vera rottura di Bertolucci con il suo passato filmografico non sta tanto in una messa in scena e una narrazione lineari in modo disarmante, o nel suo primo utilizzo di effetti digitali (il morphing, su tutti), ma nel trattare lo spettatore come un bambino. Un bambino che non sa niente del buddhismo, che ignora tutto (o quasi) di quel punto di vista spirituale, ma che è pronto a interrogarsi.
Se Piccolo Buddha è un film dichiaratamente didattico, è anche il contraltare dell’approccio hollywoodiano verso le altre culture. Nel suo essere manifestamente ingenua, nella sua rinuncia a un certo tipo di sottotesto, la favola di Bertolucci è una scelta di campo. Più pasoliniana, sotto alcuni aspetti (anche estetici: molte location sono le stesse de Il fiore delle Mille e una notte), cerca nella consulenza di Dzongsar Jamyang Khyentse Rinpoché – il vero Lama Norbu, che dopo l’incontro con Bertolucci diventerà il primissimo regista buthanese – un’autenticità che smascheri i limiti di uno sguardo dualista.
Nel 1993, Piccolo Buddha veniva bersagliato sia dai critici che dai buddhisti integralisti: una contraddizione in termini, a ripensarci, che vedeva nell’aggettivo “piccolo” un’offesa verso la figura storico-religiosa più importante del continente asiatico. Fu il Dalai Lama a risolvere il dissidio affermando che “c’è un piccolo Buddha in ognuno di noi".
Lo stesso fu invitato alla prima del film e la trascorse tenendo le mani del regista per tutta la durata della proiezione. Negando di essere un proselite del buddhismo, con Piccolo Buddha Bertolucci si espone manifestamente, radicalmente, a una serie di contestazioni sulla mise-en-scène e sul suo ruolo come autore italiano e internazionale in quel preciso momento storico.
Ma quello di Bertolucci non è esotismo, né banale fascinazione. È piuttosto un progetto ambizioso che desidera utilizzare il mezzo cinema per veicolare una riflessione sulle possibili rappresentazioni dell’incontro con l’altro da sé al tempo di produzioni come Jurassic Park e Schindler’s List, il tutto restando popolare. Il fanciullesco di Bertolucci non è e non può essere quello di Spielberg, perché privo del senso di bene e male che contraddistingue il conflitto occidentale.
C’è un motivo perché la parte contemporanea del film viene ambientata negli Stati Uniti, così come c’è un motivo nella scelta – questa sì, “dualista” – di Vittorio Storaro nel prediligere toni freddi per le scene che si svolgono nella casa dei genitori di Jesse, contro quelli caldissimi della parabola di Siddhartha. È come se il cinismo della roccaforte occidentale, rappresentata dalla famiglia americana (che per Bertolucci non è stereotipata, ma algida come la casa che abita), le tensioni e le paure della società industriale vengano contrapposte a una più accogliente e ludica accettazione della morte, della disintegrazione e del cambiamento.
“La forma è vuota e il vuoto è forma". Come il Mandala che viene spazzato via strategicamente alla fine dei titoli di coda, Piccolo Buddha – per quanto poco amato o “incompreso” – rappresenta una tappa fondamentale del cinema di Bertolucci. Nel suo primo film “non scettico” risiede il primo vero segnale di consapevolezza che anche la sua opera sia destinata a scomparire e a disgregarsi, come la pellicola naturalmente fa.
Forse è vero che i film sono soltanto luce che rimbalza su uno schermo e che di essi può restare unicamente il ricordo, ma in quell’illusione c’è un sogno che può svegliarci dall’incubo del reale. E sulle note struggenti di Ryuichi Sakamoto (alla terza collaborazione con Bertolucci, che chiude la sua personale trilogia sonora), potremmo anche scoprirci pronti, finalmente, a guardare “oltre”.