Che cosa definisce un cult? Quali sono i fattori che portano un prodotto cinematografico ad affondare le radici nell’immaginario collettivo, rimanendo ben saldo nonostante lo scorrere del tempo, luminoso nei suoi punti di forza e trascurabile nei suoi punti deboli? Le variabili sono numerose e riguardano tanto le peculiarità specifiche (trama, cast, regia) quanto le circostanze fortuite che vedono collimare l’oggetto culturale con i suoi creatori, i ricevitori e il contesto sociale in cui si verifica la ricezione.
Mettendo da parte la sociologia applicata alla settima arte, risulta comunque interessante l’affetto che gli spettatori dimostrano tramite le piattaforme streaming e nelle repliche sui canali della tv generalista nazionale per un film come Pretty Woman (1990) di Garry Marshall, un titolo che fin dalla sua uscita si è collocato tra le migliori commedie romantiche con scene “da manuale” che rappresentano per gli appassionati, a distanza di più di trent’anni, l’occasione per rivivere quelle atmosfere che ne hanno decretato il successo.
Lo storytelling a ben vedere appare lineare, prevedibile e perfettamente fruibile da parte di ogni spicchio generazionale, eppure una sospensione del giudizio è necessaria per cogliere gli aspetti che hanno reso quest’opera così degna di nota. In primo luogo è impossibile discernere la qualità complessiva dalla prestazione offerta dalla coppia Gere-Roberts, il cui processo di mitizzazione corre in parallelo con quello della pellicola stessa, consolidando soprattutto nel caso di Julia Roberts uno status divistico indiscutibile.
Se Richard Gere si era già imposto all’attenzione di critica e pubblico con una neo-codificazione della virilità all’insegna del sex appeal e dell’inquietudine (American Gigolò, Ufficiale e gentiluomo, All’ultimo respiro), le interpretazioni fresche e di stampo adolescenziale di Julia Roberts in Mystic Pizza (1988) di Petrie e in Fiori d’acciaio (1989) di Ross in un certo senso avevano anticipato una tendenza a proporre degli spaccati della femminilità statunitense contemporanea che ora cedono il passo a una prova più matura ma sempre con un acting spontaneo e sensibilissimo.
Il personaggio di Vivian Ward, giovane prostituta sulla Hollywood Boulevard coinvolta dal miliardario Edward Lewis in un accordo destinato a concludersi come una fiaba, è l’eroina di un “light drama romantico” (di Chio) che agisce con una volgarità mai fuori misura, anzi con una variazione di toni e di pose calibrati. Il registro performativo punta infatti sull’ironia con un’attitudine alla scompostezza che la rende scevra di eccessive scurrilità in favore di una sfrenatezza da screwball comedy anni Trenta.
Già nella prima scena di intimità nella camera d’albergo, in cui Vivian si dimostra padrona della situazione, emerge la sua spensieratezza naïf: distratta dalla messa in onda di un episodio della sitcom I love Lucy, ancora una volta la risata si affaccia incontrollabile quale parte integrante del suo lato erotico. Questo alleggerimento di una rappresentazione smodata della sessualità invero si lega alla struttura del film, originariamente concepito come un dramma più cupo – 3000, il titolo del progetto iniziale in riferimento alla cifra pattuita tra Edward e Vivian, è emblematico della direzione cambiata dalla produzione in favore di una visione più rassicurante.
Il perpetuo interesse per Pretty Woman inoltre può essere spiegato alla luce della familiarizzazione atavica del pubblico con alcuni archetipi della finzione letteraria e cinematografica, dal mito di Pigmalione tramandato da Ovidio e adattato nel Novecento in teatro (Pygmalion) e al cinema (My Fair Lady), passando per le innumerevoli versioni di Cenerentola, fino a certi snodi ricavati da La signora delle camelie di Dumas.
La sceneggiatura di J.F. Lawton attua quindi una strategia di ibridazione che rende il film, se non proprio “zombi” (Morandini), senza dubbio debitore di luoghi comuni, citazioni e omaggi, offrendo un atipico Bildungsroman fortemente vincolato a un upgrade sociale e a uno scambio di interessi mascherati da commedia. Se Mike Nichols aveva perseguito una strada simile in Donna in carriera (1988) con una working girl figlia dell’ammodernamento dei modelli di Cenerentola e di Shaw, Garry Marshall qui confeziona un prodotto sì tacciabile di sdolcinatezza e prevedibilità, tuttavia capace di sfruttare al meglio le norme della romantic comedy, adattandosi a un generale clima di prudenza sessuale e di conciliazione.
Dramma sociale mancato, indubbiamente, in ogni caso il valore di questa favola alto-borghese in chiave da sophisticated comedy risiede proprio nella sua natura di pastiche che ha saputo mettere a frutto un incrocio di filoni narrativi, attingendo tanto al mondo della musica quanto a quello della moda: la scena dello shopping a Beverly Hills, con la metamorfosi del personaggio di Vivian lungo la Rodeo Drive sulle note di Roy Orbison, in questo senso è il sunto dei limiti e dei pregi dell’opera.
Il celeberrimo happy ending sulla scala antincendio, la torre della moderna storia d’amore tra la povera e il ricco, reca in nuce quello che può sembrare un barlume di una tiepidissima rivoluzione rintracciabile nelle parole di Vivian, la quale, in risposta alla domanda del suo Principe Azzurro “E dopo che lui l’ha salvata, che succede?”, risponde: “Che lei salva lui!”.