C'è qualcosa, in Quarto potere di Orson Welles, che continua a renderlo più attuale dell'attuale. Che rende questa creatura chiaramente novecentesca, incentrata sul tragico, lo spaventoso e il ridicolo del Potere nella società di massa – il film uscì nel 1941, all'apogeo della carta stampata e della radio – ancora oggetto di attenzione e attrazione verso tematiche in seguito affrontate innumerevoli volte, e col vantaggio di una maggiore prossimità all'oggi.
Eppure la figura di Charles Foster Kane resta qui, fra noi, a monito ed exemplum perpetuo: un uomo ricchissimo e potentissimo, nato in una famiglia modesta poi ritrovatasi in possesso di una miniera d'oro, cresciuto lontano dai genitori per prepararlo al successo una volta adulto, mogul dei giornali che dettano la realtà agli U.S.A.; ma anche, con qualche nota di colore, politico fallito, bi-divorziato, e possessore di un castello di indiscusso cattivo gusto nel quale ha accumulato una miriade di preziosi a volgare testimonianza della sua opulenza.
Ed è proprio così, dopo la sequenza d'apertura con la morte di Kane in una stanza semideserta della sua impenetrabile magione, che la vita del magnate viene riassunta in forma di cinegiornale – a imitazione dell'allora celebre The March of Time, cui Welles stesso aveva collaborato – all'inizio di Quarto potere. Di lì, in maniera del tutto inusuale per il cinema hollywoodiano dell'epoca, tutto della trama è già stato detto, e nulla del film ancora rivelato.
È proprio la curiosità dei giornalisti a dare l'avvio al vero sviluppo della storia, nel tentativo di capire post mortem chi fosse davvero Kane, e a cosa si riferisse con la sua ultima incomprensibile parola “Rosebud” (in italiano “Rosabella”). Ecco dunque dispiegarsi sullo schermo una serie di indagini sulle persone che per motivi lavorativi o affettivi si erano trovate più vicine a lui, di fatto nel tentativo di catturare l'essenza dell'uomo in una successione dei loro flashback soggettivi.
Ma tale essenza risulta in ultimo insondabile, nonostante l'occhio della cinepresa torni sul finale a un'assoluta onniscienza in grado di rivelare agli spettatori – e solo a loro – a cosa Kane si riferisse. Eppure, al di là dell'effettivo significato di Rosebud, c'è una sorta di perpetuato strazio sotterraneo nella progressiva realizzazione che nessuna delle persone più intime a Kane abbia la benché minima idea in proposito, mettendo il suggello a un'intrinseca solitudine esistenziale e impossibilità di farsi conoscere che la primissima inquadratura sul cartello “No trespassing” al di fuori del castello aveva già lanciato ad avvertimento.
Ogni personaggio apporta un tassello alla ricostruzione della personalità di Kane, eppure alla fine il quadro è quantomai frantumato: da un soggetto all'altro, da una circostanza all'altra, da una fase della sua vita all'altra egli può essere definito indifferentemente come comunista o fascista, idealista o prepotente, innovatore o autoritario. Ogni uomo è un puzzle (con cui la seconda moglie di Kane gioca abitualmente, guarda caso), suggerisce Quarto potere, e chi può dire in fondo che anche Rosebud sia davvero centrale per definirlo – non più, forse, della filastrocca di HAL 9000 durante lo spegnimento dei suoi circuiti.
La struttura a flashback, le linee temporali di racconto sfalsate – qualcosa a cui oggi siamo così abituati e che invece all'epoca di uscita del film era del tutto innovativo – rimandano appunto a una realtà frammentata, a opinioni e significati non condivisi, qualcosa che faceva a pugni coi dettami rassicuranti della vecchia Hollywood, intenta ad appoggiare un'idea di mondo regolare, ordinato, intriso di valori chiari e universalmente condivisi(bili).
Le celeberrime inquadrature dal basso di Quarto potere sono poi lì senza dubbio a rendere testimonianza della megalomania di Kane, ma anche a stigmatizzare come la realtà delle cose sia sempre soggettiva, sempre deformata dalla visione individuale. E i soffitti che Welles volle come necessaria conseguenza dei suoi angoli di ripresa, mentre nelle produzioni standard questi non occorrevano e non esistevano, servono anche a inscatolare i personaggi nei loro ambienti, evidenziando come il locus of control delle loro azioni non possa mai prescindere dalle situazioni esterne.
Anche la straordinaria profondità di campo ottenuta dal direttore della fotografia Gregg Toland, per cui ogni elemento è a fuoco sullo schermo e tutti i piani sono al contempo leggibili, suggerisce come in ogni momento non ci sia mai una storia sola ad accadere, ma piuttosto chiunque sia protagonista della propria, e mentre le cose succedono ognuno abbia il suo piano di realtà e quello solo.
Inoltre, unitamente all'uso espressionista e molto contrastato di luci e ombre, le lenti da soli 24 mm di Toland esasperano la distanza fra i soggetti sui diversi piani, rendendoli lontanissimi fra loro. Non esistono possibilità di reale vicinanza fra le persone né in ambito professionale né, soprattutto, personale: il rapporto con la famiglia di origine si spezza in maniera subitanea e dolorosa, quello col migliore amico non regge la prova degli eventi, i due matrimoni sono l'uno con la “moglie trofeo” bella, elegante e nipote di un Presidente, e l'altro con la “damigella in pericolo” che avrebbe ben preferito non essere salvata (relazione tratteggiata così acutamente da meritarsi il plauso femminista di Simone De Beauvoir).
Welles ragiona sulla società di massa sia relativamente alla sfera pubblica che a quella privata, e una delle sue più grandi intuizioni è proprio preconizzare come non saremmo mai più stati da soli, eppure ci saremmo sentiti sempre più tali. Quarto potere è disseminato di spazi troppo pieni, di persone e cose, o troppo vuoti: sono pieni la redazione del giornale, le feste, i comizi elettorali, l'insieme sterminato di beni che si apprestano a venir catalogati dopo la dipartita di Kane (di nuovo mostrificati dalla fotografia di Toland) e vuoti la camera della sua morte, il castello abnorme dove lui e la seconda moglie sopravvivono asfittici, le infinite porte sulle infinite stanze deserte mentre lei se ne va.
Il sottile ridicolo che pervade la figura di Kane, a dispetto della spaventosità del suo potere, non sta tanto nella magniloquenza del suo cattivo gusto, quanto nella patetica pretesa di dominare il mondo attraverso il possesso, la sola cosa sotto il suo controllo. Secondo François Truffaut, Welles è stato in grado di mostrare quanto fosse fragile una grande autorità, ma forse è stato soprattutto un uomo a cui non piacevano “né il denaro, né la forza, né il male che fanno alla gente”, e che più che un anticapitalista si riteneva un antimaterialista. Nessuna sorpresa o beffardaggine del destino, dunque, nel ritrovarsi in seguito accusato di comunismo (addirittura controllato dall'FBI) e col rimpianto di una carriera politica mancata, proprio come il Citizen Kane del titolo originario.
Oltretutto quando il film uscì, nonostante l'immediato plauso della critica, al pubblico non piacque granché che un “americano al 100%” – secondo l'autodefinizione dello stesso Kane – andasse a finire così male. Così come non gli era affatto piaciuto scoprirsi tanto credulone nel celebre caso dell'adattamento radiofonico de La guerra dei mondi, quando Welles aveva seminato il panico fra gli ascoltatori su un arrivo negli U.S.A. degli alieni, nonostante i ripetuti annunci in corso di trasmissione che si trattasse solo di fiction. È evidente come l'episodio del 1938, probabilmente il primo esperimento di psicologia sociale di massa della storia, nella dimostrazione di Welles sugli effetti del Potere sulla società anticipasse la tesi di cui Quarto potere costituisce l'ipotesi.
Ancor meno il film piacque all'influentissimo magnate dei giornali William Randolph Hearst, certamente parziale ispirazione della sceneggiatura di Welles e Herman J. Mankiewicz (che aveva con lui una frequentazione), il quale si riconobbe così tanto nel personaggio da adoperarsi con ogni mezzo per danneggiare le sorti della pellicola. E così Orson Welles, l'enfant prodige del teatro, l'autore totale ante litteram già al suo esordio nella cinematografia – di Quarto potere fu produttore, regista, co-sceneggiatore e interprete principale – colui che era riuscito a strappare alla RKO il diritto al final cut un quarto di secolo prima della New Hollywood, venne gentilmente accompagnato verso un futuro diverso.
Ma il tempo è galantuomo, si sa, e la storia della fortuna critica di Quarto potere e del suo status di opera sublime e immortale inizia già dai successivi anni '50. Con le parole di Welles, però: “La posterità non è che un'altra versione del successo, che è sempre giustamente sospetto”.