“L’intento di Queer era più complesso, e anche ora non mi è del tutto chiaro […] La scimmia sulla schiena l’ho scritto io, ma in Queer ho la sensazione di essere stato scritto”, così William S. Burroughs descrive il suo faticoso romanzo breve dai tratti autobiografici, scritto tra il 1951 e il 1953 e pubblicato solo nel 1985, da cui Luca Guadagnino trae il suo nuovo film.

La descrive come un’opera di cui è difficile prendere il controllo, come delle pagine scritte lasciate in attesa di essere lette, come quelle che compaiono all’inizio del film, quelle del romanzo, che riportano l’incontro tra i protagonisti Lee e Allerton, utilizzate non solo come testo da leggere, ma anche come materia da modellare.

Per Guadagnino, quella del testo contemporaneamente da leggere e da modellare non è solo un’idea di adattamento cinematografico, ma proprio un’idea di cinema in senso lato e di cosa significhi essere autori al cinema: lo dice da tempo, lui che sa di non scrivere i suoi film (ad eccezione per i primissimi). Eppure in Queer, almeno nelle prime battute, l’adattamento sembra farsi sorprendentemente fedele.

Siamo a Città del Messico nei primi anni Cinquanta, Lee vaga per le strade in cerca di alcool, di prede e di nottate di sesso. Un giorno incontra Allerton, un giovane appena arrivato, e inizia a tessere la sua tela. Si instaura così un rapporto, corporeo e scorporato allo stesso tempo, che li conduce in Sud America alla ricerca dello Yage: una droga che sembra possa avere funzioni telepatiche. Cos’è lo Yage per Lee? La ricerca di una nuova esperienza sensoriale? La speranza di trovare uno strumento per controllare o capire il criptico Allerton? È un capriccio? Un desiderio? Un’urgenza?

Da un lato Queer è uno sfacciato omaggio a Burroughs, alle atmosfere, alle traiettorie ombelicali di Lee che si trasformano in lineari ricerche irrisolvibili, all’idea di testo maledetto, all’omosessualità, alla tossicodipendenza. Dall’altro lato è un atto di rimodulazione (la cifra di Guadagnino) che trasforma il mondo in cui è immerso il viaggio del protagonista su un piano sempre più mentale, sfacciatamente irreale e finzionale (girato per la maggior parte a Cinecittà).

I campi lunghi sono rarissimi, tutto è cornice, circonda, descrive – come la musica, dai Nirvana ai Verdena passando per i New Order – rimodula. È proprio in questa cornice che l’impossibilità di attuare un controllo dell’opera diventa l’essere in balia (anche di uno spazio-tempo eccessivo e finto) di una visione-finzione-rimodulazione.

Per esempio, la relazione tra i corpi di Daniel Craig e Drew Starkey si gioca su una profonda fisicità (nelle cruciali sequenze di sesso) che però diventa contemporaneamente scorporata e ipotetica. Spettrale come una condanna (in alcuni passaggi sembra emergere quello che Burroughs ricorda essere un evento mai citato nel libro come l’incidente con la pistola che uccise la moglie), come una visione, un trip allucinogeno, come un’esperienza disincarnata (termine che si ripete costantemente).

Quando i due protagonisti trovano lo Yage (altra cruciale deviazione rispetto al romanzo), ovvero la droga che cercano in Sud America, vengono messi in guardia: questa droga non è una fuga, ma uno specchio, come quello nel quale si immerge il protagonista di Orfeo di Jean Cocteau che Lee e Allerton vedono a Città del Messico.

Il “disincarnato” di Queer fa coesistere libertà di movimento (fuga) con il vincolo intimo (specchio), l’emancipazione visiva con il nodo personale: la teoria con l’intimità. La finzione diventa manifesta simulazione (di sé), l’esperienza disincarnata è contemporaneamente fuoriuscita e ingresso, sia fluttuare nello spazio lontano che fondersi dentro a un corpo vicino, osservarsi o sapersi osservati da sé stessi (come scrivere o essere scritti).