Raffaele Pisu ha frequentato tutti gli spazi dello spettacolo italiano: la rivista al suo tramonto, la radio ancora decisiva nel veicolare tormentoni, la televisione delle origini e quella dei grandi successi di massa, la commedia musicale, il varietà nelle sue infinite derivazioni. Benché abbia presidiato con maggiore fortuna il teatro e la televisione (ricordiamo almeno il cult L’amico del giaguaro), Pisu vanta anche una bizzarra carriera cinematografica: incostante ma frizzante, con una cesura netta nel 1967 prima del ritorno nel nuovo millennio.
Al di là dell’indole dell’uomo (“la mia vita si inabissa e poi riaffiora. Polvere e stelle”, ha detto di sé), studiare l’interruzione del rapporto significa anche considerare i cambiamenti del cinema comico italiano: alla fine degli anni Sessanta, infatti, prima della stagione delle commedie sexy, vengono a mancare i film costruiti attorno agli attori comici, a parte Franco e Ciccio, uniche star del genere; la commedia all’italiana si concentra su un limitato gruppo di star; si consolida la televisione, che arruola un genio come Marcello Marchesi (anche autore per Pisu), mentre all’orizzonte si intravedono le nuove emittenti private dove emigreranno Walter Chiari, Gino Bramieri, Raimondo Vianello.
Quasi sempre caratterista (peraltro spesso doppiato per sconfessarne le origini bolognesi: gli hanno dato la voce Nino Manfredi, Gianni Bonagura, Gianni Musy), Pisu si ritrova protagonista curiosamente nell’unico dramma interpretato prima delle prove più recenti: è il disperato stagnaro romano che tenta di tornare a casa dalla Campagna di Russia in Italiani brava gente (1964), titanica e sfortunata coproduzione italo-sovietica di Giuseppe De Santis. Quello che avrebbe dovuto rappresentare un ambizioso punto di svolta per Pisu – ma anche per il regista stesso, suo malgrado al penultimo film – si è, invece, rivelata un’occasione mancata.
Lo sfaccendato rampollo di un medico nella fondamentale commedia borghese Padri e figli (Mario Monicelli, 1956), il marinaio innamorato ne I pappagalli (Bruno Paolinelli, 1955), l’infido spione in Susanna tutta panna (Steno, 1957) sono gustosi guizzi, ma mai niente di davvero indimenticabile. Si ha l’impressione che al cinema nessuno abbia mai voluto davvero puntare su questo comico dall’animo sornione e il fisico signorile, che ha dovuto aspettare trentacinque anni per un’imprevedibile rentrée cinematografica.
La deve prima a Luca Barbareschi (è un senatore a vita ne Il trasformista, 2002: un omaggio da irregolare) e poi soprattutto a Paolo Sorrentino, un genio quando si tratta di mettere in scena dei corpi anziani: per Le conseguenze dell’amore (2004) ha vinto un Nastro d’Argento, nel ruolo di un dolente signore della porta accanto, abitante spettrale di un mondo al crepuscolo, unico a tessere un rapporto con il protagonista. Dopo il terrigno papà de Il mio domani (Marina Spada, 2011), è tornato quest’anno con Nobili bugie, da lui ideato, diretto dal figlio Antonio e interpretato, tra gli altri, con l’altro figlio Paolo Rossi: una black comedy sopra le righe e sui colli bolognesi durante la seconda guerra mondiale, dove emerge un temperamento umorista tra il nero e il surreale forse non del tutto approfondito finora.