Parlando di “scenario scopico” nel suo L'alieno e il pipistrello, Canova suggerisce di fatto la possibilità di una reciproca influenza tra il dominio dell'immagine virtuale e quello dell'immagine cinematografica. È una posizione nota e condivisa nella riflessione sulla post-modernità, cui fa riferimento anche Eugeni parlando di spazi ne Il testo globale, che parte da un assunto di base facilmente osservabile: più che in antitesi o in continuità, il cinema e il videogioco sono coinvolti in un rapporto di definizione reciproca. Si arriva quindi a parlare di spazialità, di narrativa o di interattività proprio nel tentativo di definire cosa, in uno dei due ambiti, influenzi o venga influenzato dall'altro. Ci si riferisce a precisi meccanismi di appropriazione: all'emergere, cioè, di dinamiche o iconografie provenienti da immagini generate in differenti ambiti visivi o interattivi. Numerosissimi sono gli esempi di questa interdefinizione, senza chiamare in causa banalità come tie-in o citazioni dirette: in questo 2017 abbiamo per esempio visto al cinema l'eclatante caso di King Arthur - Il potere della spada di Guy Ritchie o, tra gli scaffali di titoli videoludici, il discusso e chiacchieratissimo Resident Evil 7: Biohazard. Già analizzando questi due esempi (tra gli innumerevoli disponibili) possiamo chiarire di cosa si stia parlando.

Il film di Ritchie non chiama in causa direttamente il mondo dei videogiochi: i suoi riferimenti sono per lo più estetici o atmosferici, tra un grigiore desolato e “cinereo” (che rimanda direttamente al medievale post-apocalittico di Dark Souls III) e qualche villain che sembra fuoriuscito dalla Caccia Selvaggia di The Witcher 3. Oppure ancora i serrati inseguimenti tra vie cittadine affollate (in cui fotografia, ricostruzione e criminalità rievocano le più concitate missioni della serie Assassin's Creed) o le inequivocabili boss fight, come la risoluzione di conti finale (che si ambienta in un'arena fuori dallo spazio e dal tempo, uno spazio irriconducibile e “reticolare” come quelli di cui parla Eugeni). In assenza di riferimenti espliciti (o intenzionali?), l'immaginario di King Arthur è evidentemente contaminato, attinge cioè a piene mani dal panorama videoludico fino al punto in cui un videogiocatore, più che un cinefilo, arriva a essere in possesso del bagaglio culturale/iconografico (“enciclopedico”, direbbe Mieke Bal) necessario per coglierne riferimenti ed echi. Come blockbuster per ragazzi, King Arthur vive di una familiarità condivisa col videogioco e con le sue ossessioni, coi suoi mantra, coi suoi topoi; somiglia in fin dei conti a una gemmazione cinematografica di qualcosa che è nato e si è sviluppato all'interno di una narrazione interattiva.

Per quanto riguarda Resident Evil 7, la questione è più complessa. Il titolo presenta, a differenza di King Arthur, riferimenti chiari al mondo del cinema: dalla celebre cena con la famiglia di pazzi già vista in Non aprite quella porta, all'inquadratura che vede il cameraman venir trascinato via dal killer (proveniente dal finale di Rec), la lista di rimandi diretti e riconoscibili dall'utenza cinefila è lunghissima e destinata, di volta in volta, ad aggiornarsi a ogni nuova partita. Stessa cosa si può dire per i topoi, non meramente iconografici, che vivono all'interno del racconto: la famiglia omicida, la bambina dotata di poteri paranormali, le “possessioni”, le mutilazioni con la motosega, la casa infestata, il found footage, l'enigmista squilibrato e così via. L'utente che completa la campagna base di Resident Evil 7 passa attraverso una commistione di elementi cinematografici rielaborati e mescolati, a formare un turbine referenziale e vertiginoso (la danza di archetipi di cui Eco scrive a proposito di Casablanca) che, sapientemente intrecciato con l'esperienza interattiva, sembra finalmente consentire al giocatore di entrare nei racconti che fino a quel momento sono stati soltanto visti.

Ci permettiamo di tirare le somme, per quanto a seguito di una riflessione soltanto accennata. Non ci troviamo dinnanzi a meri riferimenti che passano da un medium all'altro, bensì abbiamo a che fare con processi di contaminazione che allineano in prospettiva il cinema e il videogioco, interdefinendone le immagini quanto i racconti, interdefinendone le esperienze. Le specificità di queste contaminazioni sono evidenti: da una parte il cinema non può che far vivere un immaginario videoludico dal punto di vista iconografico, spaziale o narrativo (la frammentazione post-moderna, al di là dell'eco estetica); dall'altra il videogioco non può che riferirsi all'immaginalità cinematografica per fare il suo ingresso in un tessuto riconoscibile e familiare. Se il cinema si contamina astraendosi e frantumandosi, il videogioco tende piuttosto a una maggiore linearizzazione: in questo senso, nel loro reciproco impatto, i due media sembrano tendere l'uno alla testualità dell'altro. Viviamo racconti cinematografici, interagendovi; al tempo stesso, siamo spettatori all'interno di mondi sempre più aperti e frammentati. Il confine tra il paradigma osservativo/interpretativo e quello interattivo/manipolativo sembra allora destinato a confondersi sempre di più, in un tentativo sempre più stratificato di far collassare un immaginario che, dal canto suo, non riesce proprio a tracciare linee di demarcazione.