Il regista e attivista ucraino Oleh Sentsov – balzato agli onori della cronaca anche per l’arresto da parte dei russi nel 2014 con l’accusa di terrorismo – presenta in gara a Venezia78 nella sezione Orizzonti Rhino (2021), un film pregiato e durissimo: un dramma, un crime, un noir, un gangster-movie violento e nichilista, un ulteriore tassello che conferma come anche nei Festival più importanti – vedasi per esempio Benedetta e Titane a Cannes – ci siano film coraggiosi, “scandalosi”, e appetibili anche per il grande pubblico, film che si collocano a metà fra strada fra l’autorialità e il “genere”.

Scritto dallo stesso regista, il film ha come protagonista Vova (Serhii Filimonov), detto Rhino, un giovane che cresce in Ucraina negli anni Novanta, fra la povertà e una situazione familiare difficile che lo spingono a entrare nel mondo della criminalità. Prima si scontra con Cranio, un delinquente a capo di una banda che lo picchia a sangue, poi entra sotto la protezione di un altro boss locale che gli spiana la strada nella malavita. Forma così una propria gang dedita a furti, pestaggi, estorsioni e delitti: ben presto ai bastoni si affiancano pistole e mitra, mentre la polizia inizia a sorvegliarli. Quando la moglie e la figlia muoiono in un incidente d’auto, Vova perde la testa e inizia una guerra personale, convinto che sia stato un omicidio. Dopo essere stato torturato, uccide i boss della banda rivale e poi fugge in un’altra città, ma scoprirà che il sangue chiama sempre altro sangue.

Oleh Sentsov possiede una notevole perizia tecnica, e per farsene un’idea è sufficiente vedere una delle prime sequenze: un lunghissimo piano-sequenza – o meglio, un insieme di piani-sequenza legati fra loro in modo da rendere impercettibile il distacco, sullo stile di Hitchcock in Nodo alla gola o di Inarritu in Birdman – che mostra la crescita di Vova in rapida successione, dall’infanzia all’età adulta, passando brevemente in rassegna gli eventi più significativi.

Sentsov utilizza con disinvoltura la macchina da presa, in modo circolare e vertiginoso, e ci fa muovere insieme ad essa all’interno della casa, fra i personaggi che crescono o invecchiano e disgrazie varie che si alternano. Una sequenza significativa anche perché mostra un uso insistito della camera a mano, che sarà una cifra stilistica di tutto il film, sia che si tratti di riprendere Vova e gli altri personaggi in primo piano, sia che si tratti di mettere in scena cruente risse o sparatorie: camera a mano, movimenti rapidi di macchina, fotografia fredda e montaggio serrato sono alla base dello stile utilizzato da Sentsov; uno stile che ricorda il primo Nicolas Winding Refn, quello della trilogia di Pusher, film con cui Rhino condivide anche un registro narrativo simile.

Il romanzo criminale costruito da Oleh Sentsov non è infatti pomposo e magniloquente come Il padrino o Scarface, ma più “umano” – se così si può definire – improntato cioè alla messa in scena nuda e cruda dei personaggi, diretto e narrato in modo asciutto, quasi documentaristico, con uno stile frenetico che concede poche pause (brevi ma significative, come i dialoghi con l’uomo in auto, su cui bisognerà tornare). E proprio come accadeva in Pusher, la regia non vuole mettere in scena un grande impero del crimine, bensì una micro-criminalità che in parte è già insita nella persona (vediamo il piccolo Vova mentre in una rissa fra coetanei estrae una lama), ma che in parte è descritta come risposta a una vita difficile, fatta di indigenza, problemi familiari e una società dove il singolo rischia di perdersi.

Perché la vita di Vova – soprannominato Rhino per una sporgenza in testa, ma anche per la metaforica corazza da rinoceronte che lui spiega di aver creato per difendersi – è una vita fatta di perdizione: una vita vissuta nel culto della violenza, fra azioni criminali, alcool, droga e prostitute, di cui a un certo punto sembra pentirsi, andando incontro a una tragica espiazione che starebbe bene in un noir di Abel Ferrara o Martin Scorsese (anche per lo stile asciutto e anti-enfatizzante). Perché l’intero racconto si svolge, almeno idealmente, come un lungo flashback che Vova racconta in auto a un uomo non meglio identificato – un’entità quasi fantasmatica che potrebbe rappresentare la sua coscienza – in una serie di scene che ritornano periodicamente: Rhino si è reso conto del male che ha fatto e della persona mostruosa che è diventato, ma ormai è tardi, e i conti vanno pagati. La regia non giudica, né assolve e né condanna, ma mostra il mondo del crimine semplicemente per quello che è, in tutto il suo orrore.

Sentsov non dispone di attori famosi, ma tutti i componenti del cast – a cominciare dal protagonista – possiedono i volti giusti, duri, imbruttiti, perfetti per i ruoli da malavitosi. Si è parlato di uno stile anti-enfatizzante, perché lo spettacolo – inteso come violenza e azione – c’è eccome, ma è narrato in modo singolare e realistico, quasi in presa diretta. La violenza non è un divertissement pulp, ma è una ferocia realistica, disturbante, sanguinaria, che ci fa quasi sentire i colpi che prendono i protagonisti: a cominciare dallo scontro impari fra Rhino e gli uomini di Cranio, passando attraverso una rassegna di durissimi scontri corpo a corpo, fino alla tortura che lo stesso Cranio infligge a Vova e che raggiunge lo zenit in una scena ferocissima che Fernando Di Leo approverebbe.

Quando cioè il rivale gli inchioda i piedi – letteralmente, con chiodi e martello – sul pavimento, un po’ come faceva Pier Paolo Capponi in Diamanti sporchi di sangue allo zoppo, inchiodato con le mani al muro. Ma pensiamo anche alla sparatoria improvvisa con cui la gang di Rhino stermina gli avversari a suon di mitra, l’agguato a colpi di pistola, l’esecuzione a pugnalate – tutte scene, fra le violente risse e le sparatorie, in cui si fa uso di sangue in abbondanza.

Sentsov è abile nel bilanciare la psicologia dei personaggi – vedasi quanto si è detto a proposito di Rhino e della sua coscienza – con una descrizione minuziosa del milieu criminale, fatto di piccoli sgherri e boss, rapine e omicidi, bande rivali e traditori. Per niente banali sono poi alcuni accorgimenti di regia, come le ellissi volute – vedasi gli stacchi improvvisi sui bastoni insanguinati, o sui sicari inquadrati già stesi per terra – oppure l’utilizzo di musiche popolari ucraine sullo sfondo di pestaggi e sparatorie, in escalation di violenza degne della serie Gomorra, forse gli unici e brevi momenti di enfasi in un gangster movie realistico e disturbante.