Perché vedere il documentario di una star morta? Se le attese spettatoriali devono ritenersi soddisfatte dal gossip rivelato da un biopic – che riporta aspetti inediti della vita artistica e psicologica del personaggio che racconta – l’analisi formale del critico cinematografico deve osservarne la struttura cercando di prendere le distanze dalla logica emotiva del fan.
Amy di Asif Kapadia raccoglie e monta insieme video inediti e amatoriali che riguardano la vita privata e pubblica della superstar della musica jazz Amy Winehouse: così, mentre alcuni aspetti del cinema di finzione sono evidenti grazie ad alcune trovate che conducono lo spettatore quasi inevitabilmente alla partecipazione emotiva (è l’effetto karaoke dei testi delle canzoni scritti su grande schermo con traduzione a fronte), l’impianto documentaristico è accentuato da alcune scelte di regia (si pensi alle scene dei concerti “dal vivo” invece che a immagini di videoclip o televisive, o a quelle in sala di registrazione come nel duo con Tony Bennett), oltre che la selezione di video girati all’interno della casa di una Amy bulimica fin da quando comincia a scrivere e a cantare i primi pezzi, e le interviste di amici, parenti e produttori che raccontano le preoccupazioni di una morte annunciata.
Il racconto delle vicende legate all’uso di droghe e di alcool poggia su una struttura formale bipartita, in maniera del tutto speculare – si potrebbe dire – alla produzione dei soli suoi due album, Frank e Back to Black. Così, si scopre che Black è anche un uomo che la abbandona (il disco e il successo nascono quindi a partire da vicende del tutto autobiografiche), e che la spinta all’autolesionismo (si pensi ad Amy e Black che si producono volontariamente ferite sulle braccia con un coltello) trova la sua causa più profonda nella presenza di un padre-manager al centro di problematiche freudiane mai risolte (come non notare la scritta “daddy” tatuata sul corpo di lei). Amy farà la fine di altri cantanti morti a ventisette anni (l’immagine dell’autoambulanza è televisiva o amatoriale?) entrando a pieno titolo nella mitologia del pop.
Paradossalmente, il filone del biopic musicale che mette a tema la vita dissoluta di una star sembra non volere (o non potere) sminuire il personaggio con informazioni su comportamenti dissoluti, ma anzi rafforzare l’aura mitica dell’artista geniale e maledetto quasi come uno specifico del genere. Insomma, ciò che non ha fatto Amy in vita lo fa lo spettatore all’uscita dal cinema: la rievocazione del mito attraverso i discorsi sul film, non è probabilmente anch’essa una forma di riabilitazione?
In collaborazione con Leitmovie