“Devi uccidere la persona che ti volevano far essere se vuoi diventare la persona che vuoi essere veramente” è il consiglio elargito dal navigato soul man di Detroit al giovane pianista londinese che lo accompagna in tour. Questa potrebbe essere la locuzione riassuntiva dell’intera parabola artistica di Elton Hercules John (Taron Egerton) nato Reginald Dwight. La prima scena di Rocketman è una seduta degli alcolisti anonimi a cui l’eccentrica star della musica sta partecipando. Attraverso i suoi ricordi riviviamo l’irrefrenabile ascesa di un figlio della working class inglese nell’olimpo della musica mondiale. Il cattivo di turno è ancora una volta John Ried (Richard Madden), già ampiamente raffigurato come il perfido produttore in Bohemian Rhapsody, mentre il paroliere Bernie Taupin (Jamie Bell) è assolto con formula piena grazie all’ammissione di colpa dello stesso protagonista. “Mi sono comportato da stronzo negli ultimi quindici anni” ammette sommessamente Elton nel decisivo vis-à-vis con il suo autore prediletto e forse unico amico.
“Nella sua prima e unica autobiografia ufficiale, l’icona musicale Elton John rivela la verità sulla sua straordinaria vita, che è anche il soggetto del film Rocketman. Il risultato è Me” annuncia uno spot promozionale dell’autobiografia di Sir. Elton John. Quale miglior pubblicità per un libro evento se non un biopic dedicato all’autore dello stesso che ne precede di qualche mese l’uscita? La risposta risulta quanto mai ovvia, così come le ingerenze di Elton John in veste di produttore del film basato sulla sua vita e interpretato dall’amico di vecchia data Taron Egerton. Un cortocircuito di puro egocentrismo che non può e non deve però offuscare il giudizio su un’operazione cinematografica nel suo complesso riuscita.
È lunga la lista dei film biografici che hanno cercato di restituire le vite straordinarie delle icone musicali del nostro tempo. Quando l’amore brucia l’anima, Io non sono qui, Last Days, Bird, Ray, The Doors, Control, La vie en rose ed ovviamente Bohemian Rhapsody. Quest’ultimo, ancora freschissimo nelle memorie degli spettatori, costituisce un diretto termine di paragone sia per la contingenza cronologica sia per la regia condivisa di Dexter Fletcher, autore non accreditato intervenuto in soccorso di Bryan Singer per chiudere il film sui Queen. Ma la sostanziale differenza fra Bohemian Rhapsody - o i titoli sopracitati - e Rocketman è che l’artista in questione è vivo, vegeto e più mondano che mai.
Rocketman si discosta solo apparentemente dai canoni del film biografico. Se è vero che il racconto scorre libero attraverso le rievocazioni oniriche del protagonista, è altrettanto reale che la struttura classica del biopic - ascesa, declino e rinascita - non viene mai veramente scardinata. L’unico elemento di rottura rispetto ai canoni di genere è costituito dall’attitudine spiccatamente musicale del film. A più riprese il protagonista racconta se stesso attraverso i suoi successi dando vita a sequenze che rientrano a pieno diritto dentro i confini del musical classico. Rocketman ha la vocazione e la preparazione del musical. Il raffinato lavoro compositivo e di ri-arrangiamento compiuto sui testi dà uno slancio di qualità a un’opera carente e prevedibile in fase di scrittura. Risiede infatti nella performance - musiche, coreografie e costumi - il vero valore aggiunto del film.
Un’operazione certosina che rende i lunghi piani sequenza musicali indimenticabili. Fra tutti il bellissimo viaggio onirico percorso sulle note di Rocket Man, non a caso il testo scelto per il titolo del film. Il tuffo suicida in piscina si trasforma in un commovente viaggio in ambulanza a cui segue il frenetico backstage di uno degli innumerevoli concerti. “I’m not the man they think I am at home, Oh no no no. I’m a rocket man. Rocket man burning out his fuse up here alone” racconta "l’uomo razzo". Reginald è a pezzi, ma Elton grazie alla sua armatura di paillettes è pronto per far sognare ancora una volta il suo pubblico. La scissione fra l’uomo e l’artista è compiuta ancora una volta. Da Rocketman emerge solo ciò che il "Rocket Man" ha voluto mostrare di sé al mondo. Il percorso tortuoso di un predestinato che dopo aver attraversato il proprio inferno personale ottiene l’agognata redenzione. Le profonde sofferenze che hanno alimentato per anni la sua arte sono il vero soggetto del film.
Rocketman ci mostra come spesso il processo creativo si nutra dei dolori dell’uomo. Più il suo successo cresce, più la sua vita privata sprofonda. Il dolore per il protagonista diventa la conditio sine qua non per poter esprimere il suo folgorante talento artistico. Quello vissuto da Elton è un dolore espanso, totalizzante, ramificato in ogni sfera del privato: famiglia, amore, amicizia. Un disperato bisogno d’affetto che per anni combatte a colpi di autodistruzione. Dalla bulimia al sesso compulsivo, all’abuso di alcol, droghe e psicofarmaci, non c’è una strada per l’autodistruzione che Elton John non abbia percorso con caparbia determinazione. Ma nel caso in cui lo spettatore non avesse ancora chiaro il concetto dopo 121 minuti, intervengono per dissipare ogni dubbio le didascalie esplicative finali. Grazie a queste ultime possiamo leggere, nero su bianco, come la disintossicazione, l’incontro del vero amore e le plateali opere benefiche a favore dei malati di HIV/AIDS abbiano reso Elton un uomo migliore.