Roma città libera non è del tutto ascrivibile alla corrente ed è curiosamente il maestro Vittorio De Sica a chiarirlo, trasmettendo un’imprevista dimensione eterea. Apparizione evanescente che agisce inconsciamente come il Destino di Prevert e Carné perché con i suoi gesti dispone le sorti dei personaggi, il divo è uno smemorato “distinto signore” di mezz’età, nel frattempo ricercato dai colleghi, che ricorda solo di dover scrivere un discorso per un’occasione ufficiale. L’imprevedibile traiettoria che prende all’alba la sua disavventura notturna è un graffio satirico splendidamente flaianesco, metafora di un mondo inaffondabile.

Scritto da Pagliero e Flaiano (i rapporti tra i due si deteriorano presto) con Suso Cecchi D’Amico, Luigi Filippo D’Amico (aiuto regista), Pino Mercanti e Cesare Zavattini, è uno dei più famosi film In origine si chiamava La notte porta consiglio, che è poi diventato il sottotitolo di Roma città libera, scelto sull’onda del capolavoro di Roberto Rossellini in cui recitava il regista esordiente Marcello Pagliero – ma anche Francesco Grandjacquet, qui comprimario. Ma potrebbe chiamarsi anche Mentre Roma dorme, parafrasando il coevo film parigino postbellico di Marcel Carné. Al posto di Jacques Prevert – che assegnava ad un clochard la funzione di incarnare il Destino – c’è Ennio Flaiano, al primo dei suoi tanti notturni spesso felliniani, che preferisce innescare l’intreccio narrativo a partire dalla figura di un ladro in giacca e cravatta.

Lo interpreta, con un eloquio tipicamente popolare a metà tra il borbottamento musicale di Aldo Fabrizi e la cantilena disincantata dei personaggi di Luigi Magni, Nando Bruno, finalmente protagonista di una corale che sembra avere in esergo una delle freddure del Diario notturno di Flaiano: “la situazione è grave ma non seria”. In una Capitale pullulante di soldati americani e soliti traffichini che vivono di espedienti, si concatenano le vicende di un popolo di personaggi senza nomi né orizzonti sentimentali, professionali, morali, umani. Ed è come se il buio, esaltato dalla fotografia tutta in esterni di Aldo Tonti, sia l’unico luogo in cui poter convivere con l’inevitabilità del fallimento.

Tuttavia c’è quel sottotitolo a rendere evidente il senso di un racconto necessariamente votato alla speranza che all’alba ci sia qualcosa di buono per cui riprendere a vivere. Ecco quindi il cupo Andrea Checchi, nella sua effimera fase divistica, e Valentina Cortese, prima dell’esperienza hollywoodiana: giovani che tentano nella notte di essere qualcosa che la loro natura respinge, lui ladro e lei prostituta, e portano sui volti i segni di una fatica e di un dolore completamente dentro la prospettiva neorealista.

Maledetti del cinema italiano: sfortunato all’uscita anche perché ritardata di due anni, riscoperto in Francia, caduto nell’oblio assieme al suo regista, sommerso da altri capolavori della stagione, incasellabile e forse troppo moderno per l’epoca. Un gioco teorico, un oggetto lunare, un film enorme.