Ospitiamo volentieri la nota critica scritta da Rinaldo Censi per Nomadica, in vista dell’atteso arrivo a Bologna di Pedro Costa, uno dei più acclamati cineasti indipendenti della scena mondiale. Il suo cinema indaga un aspetto occultato nella storia del Portogallo, legato in particolare alla popolazione emigrata da Capo Verde. L’accuratezza del suo metodo di lavoro con gli attori (non attori) è rinomata, così come la sua padronanza dei mezzi espressivi. Tra i primi a comprendere le potenzialità del digitale, egli è oggi il punto di riferimento per nuove generazioni di cineasti. I suoi lavori vengono proiettati in tutto il mondo ed esposti nei musei. Le tre giornate di incontro e la retrospettiva alla Cineteca di Bologna saranno l’occasione per comprendere a fondo e avvicinarsi nel migliore dei modi a questo delicatissimo mondo e alla sua precisa idea di cinema.
Pedro Costa ha spesso sottolineato quanto la fotografia, la musica e il cinema abbiano contato nella sua formazione. Una fotografia di Jacob Riis, un disco degli Wire, i film degli Straub, o di Tourneur, definiscono un’attitudine: sono un modo di vedere e fare le cose. Qualcosa che egli ha avvicinato all’energia del punk.
Da parecchi anni Pedro Costa non è più disposto a girare film che partano da una rigida sceneggiatura. Non è più in grado di sedersi a un tavolo e scrivere dialoghi per personaggi immaginari. Sono stati necessari tre film e dieci anni di lavoro (O sangue, Casa de lava, Ossos) per comprenderlo. Lo snodo nella sua filmografia è No quarto da Vanda (2000). Inventando un proprio modo di produzione, aiutato dalle potenzialità e dalla leggerezza che oggi il digitale permette, egli ha deciso di soffermarsi su alcuni eventi che hanno avuto luogo nel paese in cui vive: il Portogallo. Questa investigazione fa i conti con una specie di rimosso: la presenza nel paese degli abitanti di Capo Verde. Cavalo Dinheiro (2014) è l’ultimo tassello di quella che ormai possiamo considerare la sua personale saga capoverdiana, vagamente simile a quella della contea di Yoknapatawpha, narrata da William Faulkner.
Il suo modo di “condividere” il lavoro, il film, con gli attori somiglia a quello di un etnologo. Ogni momento passa attraverso un movimento relazionale, una prossimità e una consapevolezza collettiva del lavoro che sta dietro al film. Soprattutto, il film si modifica, si arricchisce grazie all’intervento di coloro che ci lavorano. Una prassi che lo avvicina a Jean Rouch, ad esempio. Un po’ come fare cinema senza reti di protezione, raccontando una storia senza conoscerne la fine; dove un film può durare 10 minuti oppure sette anni. Perché la storia prende vita nello stesso momento in cui la si gira. E dove conduce? A volte verso un’altra sequenza, a volte in un altro luogo. Oppure ad un altro film.
Rinaldo Censi