Seberg inizia con Jean Seberg al rogo. Sospira tra le fiamme. Fino all’ultimo respiro (ma, nella sua carriera, Jean-Luc Godard non è ancora arrivato). Il riferimento – con tutto il suo portato simbolico – è al biopic dedicato a Giovanna D’Arco, Santa Giovanna, interpretato dalla giovane attrice esordiente per la regia di Otto Preminger. Regista titanico, lanciò Seberg nell’allora campione d’incassi Buongiorno tristezza. Il suo cognome ricorre in una conversazione tra la diva della Nouvelle vague e il suo agente, in viaggio verso gli Stati Uniti: Joshua Logan, che dovrà dirigerla in La ballata della città senza nome, è un «bravo ragazzo», rassicura lui, «non è Preminger». Bella battuta, meritevole di andare più lontano.
Prima di questo momento, abbiamo spiato il ménage coniugale di Seberg e suo marito, l’avventuroso scrittore Romain Gary: lei sta partendo per il set americano, lui non la segue perché è scoppiato il Maggio francese e, come dire, perché mai andare in America? Molto di ciò che avremmo voluto vedere in Seberg è chiuso in questo promettente incipit: un matrimonio complicato, una carriera alla resa dei conti. In realtà sappiamo benissimo che il film di Benedict Andrews intende concentrarsi maggiormente su altro. Lo capiamo in modo definitivo quando, sull’aereo, Seberg conosce un attivista afroamericano, vittima delle regole discriminatorie della compagnia aerea. Atterrata in America, Seberg si dichiara sostenitrice delle Black Panther e, dunque, viene messa sotto controllo dai servizi segreti guidati dal mefistofelico J. Edgar Hoover.
Seberg usa l’emblematica vicenda dell’attrice per definire l’orizzonte politico e sociale dell’America tra i Sessanta e i Settanta: la stagione del Vietnam e di Nixon, dominata dalla cultura del sospetto. La dimensione paranoica, infatti, rappresenta l’intuizione più felice di un film che cerca di rincorrere il passo teso del thriller, riuscendo a essere piuttosto intrigante quando cavalca le ossessioni della protagonista: lo scotch sugli infissi per capire se le spie sono entrate in camera, la distruzione del telefono, la camera messa a soqquadro. Tuttavia, al netto della sentita prova di Kristen Stewart che però sembra percepire l’assenza di un regista all’altezza, Seberg risulta inerte, poco equilibrato nel dosare il dolente privato della star con la trama spionistica appaltata a Jack O’Connell e tutto sommato incapace di dire qualcosa di inatteso su un personaggio tanto intrigante. Peccato, perché il biopic è tra i non-generi del cinema americano che negli ultimi anni ha meglio dimostrato di poter essere non solo contenitore di una storia personale ma di un coacervo di linee narrative anche imprevedibili. Non è questo il caso.