Ismail e Hassan sono due fratelli di origini hazara che vivono a Trieste. Entrambi sono partiti 20 anni fa dall’Afghanistan poco più che bambini, spinti dalla madre che temeva per la loro vita. Da allora non sanno più niente di lei. Durante il viaggio Hassan viene fatto prigioniero e torturato dai talebani che lo lasciano in vita solo per mostrare loro efferatezza. In Italia Ismail riesce ad integrarsi, si mantiene facendo diversi lavori fra cui il mediatore culturale, ha amici e una collega di origini croate - Nina - di cui si sta innamorando. Hassan invece rimane più legato al paese di origine, alle tradizioni, non parla italiano e si dedica alla sua passione per il cucito. Improvvisamente, quando un uomo fa sapere ai due fratelli che la madre è ancora viva, Ismail e Hassan cercano di rintracciarla, rivolgendo lo sguardo a quel passato che minaccia prepotentemente di tornare presente.
La regista Costanza Quatriglio, decide di raccontarci questa storia ispirata a fatti realmente accaduti, di cui lei stessa ha raccolto diretta testimonianza intervistando nel 2005 un gruppo di migranti minorenni provenienti da paesi martoriati da guerre e persecuzioni e arrivati in Italia dopo viaggi in condizioni disumane. Fra le storie di questi minorenni, una ha acceso la scintilla da cui è nato il film: quella di Mohammad Jan Azad, profugo afghano di origine hazara, oggi giornalista e poeta naturalizzato italiano, che ha collaborato alla sceneggiatura di Sembra mio figlio insieme a Doriana Leondeff.
Gli hazara sono un popolo poco conosciuto, costituiscono un gruppo etnico che vive prevalentemente nell'Afghanistan centrale. Nei secoli scorsi costituivano la maggiore etnia afghana, ma a causa delle continue persecuzioni oggi rappresentano circa il 9% della popolazione. La tradizione li vorrebbe discendenti dell'armata di Gengis Khan che giunse nell'area nel XII secolo mentre per altre fonti sarebbero i discendenti dei kushana, gli antichi abitanti che costruirono i famosi Buddha di Bamiyan, distrutti nel 2001 dai talebani. I loro tratti somatici particolari, un misto di mongolo e caucasico, li rendono particolarmente riconoscibili, soprattutto agli occhi dei talebani che in ordine di tempo sono i loro ultimi persecutori.
Questo è il primo film al mondo a narrare la vicenda di due profughi hazara ma la regista col suo racconto va oltre la tematica etnica, civile, di denuncia. “Sembra mio figlio – ha infatti dichiarato Costanza Quatriglio – vuole raccontare una storia europea, riguarda tutti noi che abbiamo saputo fare i conti con il nostro passato”. Ed è questo in effetti il cuore pulsante del film, il fulcro narrativo dai cui si dipanano le vicende di Ismail, di Hassan e di Nina. Ai dialoghi rarefatti - e spesso affidati alla freddezza metallica di conversazioni telefoniche - agli sguardi dolenti e sperduti, ai rari e improvvisi sorrisi che timidi squarciano lo schermo, la regista affida la complessità, la profondità e la pesantezza di un passato spaventoso. Di un passato con cui i protagonisti sono chiamati a fare i conti per poter sopravvivere.
Ismail (un intenso e commovente Basir Ahnang) sa che deve la sua vita alla madre che lo ha fatto fuggire da una morte certa e al fratello Hassan che si è offerto prigioniero ai talebani per farlo fuggire. Ma sa anche che questa dolorosa opportunità è un privilegio che va onorato accettando il dono di una vita se non completamente felice almeno finalmente libera.
Nina (Tihana Lazovice) è divisa fra l’amore per le sue origini croate - che riemergono nel canto malinconico delle dolci melodie dell’infanzia - e la consapevolezza che la terra in cui vive, in cui ha trovato accoglienza e stabilità, è ormai un’altra. Così come è scissa fra il volere Ismail con lei e il lasciarlo tornare al suo passato. Hassan (Dawood Yousefi) invece è il personaggio più provato dalla vita, quello a cui il dolore ha tolto le parole, il pensiero, lo sguardo, la capacità di reagire, e che trova nel ritorno al passato l’unico approdo possibile, pur intuendo il pericolo cui va incontro.
Il film è il racconto intimo e lirico dell’incontro di queste tre vite, di questi tre passati che si intrecciano. Un incontro che parte da Trieste per poi arrivare in Pakistan. E anche noi spettatori partecipiamo a questo viaggio che più che spaziale sembra temporale. Dalle ombre livide ma protettrici della città passiamo alla luce radente che mostra senza pietà. Dai primi piani insistiti e indagatori sui volti dei protagonisti passiamo ai campi lunghi delle aride zone montuose o delle piatte linee dei tetti. Dai particolari del traffico urbano ai rivoli di sangue rappreso su mucchi di cadaveri.
Ma la scena muta dell’epilogo - quella in cui noi spettatori gridiamo in silenzio il titolo del film, dando voce alle madri hazara, ai loro volti rigati da lacrime – sembra quasi ricomporre queste due dimensioni e il conto in sospeso col passato di Ismail, accendendo una luce di speranza.