Non c’è mai un luogo definito nel cinema francese. Un cinema fatto di figure e corpi sempre sul punto di ricongiungersi e ritrovarsi dopo una perdita: partire per poi fare ritorno (o immaginare di farlo) e riconoscersi nella superficie diafana della pelle consumata dal tempo, in un gesto mai cambiato, o in un sentimento che non si hanno avuto le forze né la possibilità di chiarificare. Nel cinema francese questa sintesi - per fare giusto un esempio: la lista sarebbe lunghissima - l’ha realizzata mirabilmente Claude Lelouch nei film che guardano alle storie incrociate di Jean-Luis Trintignant e Anouk Aimée (Un uomo e una donna, Un uomo e una donna oggi e I migliori anni della nostra vita): la memoria delle immagini e film e personaggi che non muoiono mai. Quasi negli stessi anni di Lelouch, Claude Sautet ha costruito una mitologia simile intorno alle figure di Romy Scheider e Michel Piccoli, esplorando, in Les choses de la vie quella zona sospesa tra ciò che riguarda la volontà e l’irruzione dell’imprevedibile nel quotidiano.
Sono le prime ore del mattino. Piccoli/Pierre e Schneider/Helena si svegliano in un appartamento parigino; lei cerca di ricordarsi il corrispettivo francese di “mentire” mentre sta traducendo dal tedesco. “Affabuler”, Pierre le suggerisce. Lei continua a scrivere e lui finisce di fumare una sigaretta guardandola ancora. Diluendo i tempi della narrazione e fermando le inquadrature e i primissimi piani sui volti dei suoi attori e su particolari dettagli, Sautet ci fa letteralmente sentire il tempo. Ce lo fa sentire in tutte le sue durate e ramificazioni tanto da scomparire, lui stesso, l’autore, per concedere spazio ai personaggi e alle vite interiori che poi erompono sulla scena, davanti al concatenarsi degli eventi.
Oggi è difficile immaginare un cinema come quello di Claude Sautet che si reggeva su una capacità di osservazione disarmante e sulla forza di sequenze che fluivano senza una direzione o un obiettivo definiti, con personaggi che sembravano quasi dimenticare di essere davanti a una macchina da presa. La durata di una sequenza o di un campo controcampo – e quindi anche l’alternarsi tra il soggettivo e l’oggettivo, se pensiamo alla sequenza infinita dell’incidente dove la voce fuori campo di Piccoli lo accompagna fino alla “fine” - è sempre qualcosa di importante ai fini dell’etica/estetica del cineasta. In questo senso, potremmo definire suoi epigoni proprio Kechiche, Garrel o Dumont (e Bresson prima di tutti), per l’appunto tutti autori che hanno fatto proprio il senso e la complessità della durata non come esercizio di stile ma come mezzo per acquisire limpidezza.