Partiamo da un dato inconfutabile: Elemental – l’ultimo film d’animazione della Pixar – al suo esordio in sala ha registrato il peggior incasso della storia della sua casa di produzione. Poi, complice l’estate e il passaparola, settimana dopo settimana, ma comunque contro ogni previsione, è diventato uno dei principali incassi della stagione. Un successo a lenta carburazione che sembra possa segnare dei cambiamenti significativi in casa Disney.
Eppure tutto ciò non sembra particolarmente nuovo. Per quanto quest’ultimo sia di segno positivo, bisogna dire che quello dei cambiamenti, degli assestamenti, delle piccole o grandi mutazioni di rotta è stato un periodo lungo e sofferto che ha caratterizzato gli ultimi anni di una produzione segnata da una timidezza e una mancanza di coraggio mai viste.
Abituati alle grandi storie della Pixar ci siamo trovati di fronte a una serie di film innocui e innocenti, “minori” anche sul piano estetico, più semplici, meno dettagliati (dei “film di cassetta” si sarebbe detto qualche anno fa). Manca il coraggio, la grandezza e la sfrontatezza delle scelte, mancano i personaggi, mancano i grandi viaggi, le grandi poste in gioco, le motivazioni urgenti…
Eppure questo articolo vuole andare oltre alle semplici (e molto poco interessanti) valutazioni di gusto e ai rispettivi “controlli qualità”, e leggere l’ultimo cinema d’animazione Disney e Pixar in chiave quantitativa, dall’alto, a distanza. Non vogliamo parlare di corso debole a causa del politicamente corretto.
Anzi, è forse proprio lì che si gioca la parte più curiosa che porta a galla un’idea di mondo che ha senso interpellare. Vorremmo quindi porre l’accento su due punti ricorrenti e leggerli in chiave culturale, interpretandoli alla luce di quelli che appaiono anche come programmi politici, scelte consapevoli. Sono due assenze: quella di antagonisti e quella di altrove geografici.
La prima, innanzitutto, denota un interesse ben più grande. Non è solo quella tendenza, molto ricorrente nella fascia live-action Disney, che porta a decostruire l’antagonista “normalizzandolo” – e che va a braccetto con la molto discussa “scomparsa degli eroi” nella narrativa contemporanea – ma proprio una scelta sistematica.
Sono tutti film in cui alla fine il punto è la ricerca di un equilibrio, una pace, in cui il conflitto è più una lotta con se stessi o con una prosecuzione di se stessi (la madre in Red, il se stesso dal futuro in Lightyear o un fratello “cancellato” in Encanto, ma mai veramente antagonisti) o al massimo con un “gruppo sociale” (i pregiudizi degli esseri umani in Luca e degli altri elementi in Elemental) o con una condizione ambientale (il “virus delle piante” in Strange World).
Da un lato è una scelta inclusiva e “normalizzante”: non esistono cattivi, tutti meritano possibilità, tutti sono buoni in fondo, per una vera prospettiva pacifista (per quanto rischiosa) nessuno deve sfidare nessuno, nessuno deve fare la guerra con nessuno. Dall’altro lato però sembra anche una scelta politica differente. Un passaggio di Strange World lo spiega bene. A un certo punto i tre protagonisti (nonno, padre e figlio) giocano a un gioco da tavolo del figlio (il giovane, la nuova generazione, il più “progressista”), un gioco che non prevede uccisioni o scontri, ma una sopravvivenza in termini di capacità di trovare equilibri ambientali con il contesto.
Allora il padre e il nonno (i due meno giovani, i due che sono genitori, che faticano a comprendere le novità e le deviazioni dai percorsi prestabiliti) sostengono che il gioco sia banale se non prevede cattivi, è noioso. Il figlio interviene: “Volete i nemici? Bene, voi due siete i nemici”. Un’affermazione emotiva che descrive un passaggio nella parabola dei tre personaggi, ma anche una risposta che offre un altro punto di vista sulla faccenda dell’assenza di antagonisti: il punto non è esclusivamente che il nemico non esiste perché dobbiamo saper vivere sempre in armonia, ma perché il nemico sta dentro di noi.
Anche la seconda assenza, quella di un altrove, dialoga perfettamente con questo aspetto, soprattutto se lo decliniamo in una prospettiva ambientalista. È un punto cartografico. La minor ambizione di questo corso è anche spaziale, nei film non sono previsti grandi viaggi o lunghe esplorazioni di mondi extra-ordinari.
A volte l’altrove è circoscritto prima e dopo il film (Elemental), a volte è proprio un tema, un orizzonte ambito ma impossibile da raggiungere (Lightyear, Strange World), a volte non è proprio contemplato (Encanto, Red). L’avventura è limitata da ostacoli tecnici (l’astronave di Lightyear), geologici (le montagne di Strange World), sociali (i confini di sicurezza di Encanto). Non si può andare oltre. Tutto si gioca dentro un perimetro ristretto come vogliono i “film in cassetta”, ma anche come vuole un corso di film che fa dell’esplorazione interiore il punto chiave.
Questo lo palesa alla perfezione ancora Strange World, forse uno dei film più esemplificativi, nonché uno dei più sottovalutati. Il suo è un mondo circondato da montagne da sempre ambite ad essere esplorate e attraversate, poi il passaggio di generazioni ha fatto sì che si pensasse a ciò che poteva dare la terra e non a ciò che poteva dare il mondo “oltre”. Il film, invece, mostra una terza generazione alle prese con altre prospettive ancora: una terra che non sembra più poter dare l’energia che dava un tempo e un vago ricordo esplorativo fallimentare.
Lo scoprire un mondo sotto di loro (che, sì, narrativamente si pone come un altrove extra-ordinario, ma simbolicamente si scoprirà non esserlo del tutto) permette di svelare alcuni elementi cruciali: oltre le montagne c’è solo un’infinita distesa di mare, il loro mondo è situato sulla schiena di un’enorme creatura che nuota in queste acque e dentro di essa, quello che pensavano fosse il veleno che faceva marcire le loro coltivazioni era un sistema immunitario che serviva a eliminare quello che per la creatura risultava nocivo e che per i protagonisti era energia essenziale.
Al netto di tutto, sembra che il cinema d’animazione Disney/Pixar porti sistematicamente avanti l’idea di non cercare il futuro lontano, ma dentro di noi, dove stiamo. Saper ricostruire, riciclare, fare ecologia (oltre che economia) con quello che si ha e non abbandonarlo per la ricerca di altro, del nuovo, del più grande, del più emozionante.
Trovare un ritmo, un equilibrio, una giustizia sociale, nessuna guerra, nessuna competizione. Nessuna vittoria e nessuna sconfitta. Solo pace e nessun eroe. Se tanti film ci dicono che staremmo meglio se andassimo in mondi anni luce lontani dai nostri e che saremmo migliori se non fossimo proprio neanche più esseri umani, se andassimo oltre, questi film ci dicono che la vera rivoluzione è stare fermi e ricostruire, cambiare noi e non abbandonarci, fare comunità, non gettare una cosa per comprarla nuova, ma ripararla.
Abituarsi a questa nuova prospettiva, anche quando sulla carta non sembra essere la migliore o la più epica, potrebbe essere un altro punto di vista sul mondo contemporaneo che viene a galla da questi film. Come nell’ultimo Elemental che declina più di altri questo discorso in chiave generazionale (e anche etnica) e ci dice che forse la rivoluzione più difficile che dovremmo mettere in atto sia quella con chi c’è già stato, con i nostri genitori, con il terreno già battuto.
La questione sta proprio nell’accettare o meno questa proposta, questa idea di mondo – programmatica, politica, culturale, ma meno scontata di quanto si creda – che questi film sembrano volerci raccontare. Non tutto il cinema, non tutta la narrativa deve prevedere un altrove, un viaggio epico, un cattivo da distruggere. E saper adattarsi a nuovi ambienti, anche se piccoli e ordinari, potremmo farlo prima di tutto come spettatori.