Malgrado l’industria cinematografica in Corea nasca e si sviluppi rapidamente a partire dagli anni Venti del Novecento, solo alla fine degli anni Sessanta, e quindi dopo le alterne vicende storiche – le guerre, le occupazioni, le dominazioni militari e intellettuali e naturalmente la divisione del territorio – la cinematografia sudcoreana si esprime compiutamente attraverso un gruppo di registi diversi fra loro ed estremamente talentuosi: Kim Ki-young, Yu Hyun-mok, Shin Sang-ok e Kim Soo-yong.
A questa generazione di autori, veri e propri maestri, è dedicata la sezione “Sotto i cieli di Seul: L’epoca d’oro del cinema sudcoreano”, che raccoglie e presenta alcuni capolavori di un decennio segnato da uno straordinario rinnovamento sociale, politico e artistico. Si tratta di film che esplorano le possibilità del realismo, del racconto di genere o ancora dell’adattamento letterario, che riflettono alcuni riferimenti cinematografici lontani e precisi, tra cui spiccano i nomi di Rossellini, De Sica e Antonioni, costruendo allo stesso tempo l’estetica peculiare e composita del cinema sudcoreano. Uomini e donne comuni, piccole o grandi famiglie, sono al centro di alcune di queste opere che interrogano visivamente il divenire e il delicato costruirsi di un paese controverso, ferito dalle guerre e dilaniato dal dissidio fra tradizione e modernità.
Nella Seul postbellica è ambientato Obaltan – La pallottola vagante (1961) di Yu Hyun-mok, cupo e malinconico affresco di una comunità smarrita e dei suoi uomini che sembrano aver lasciato in guerra la parte migliore di loro stessi. Yu predilige il racconto corale e allarga progressivamente lo sguardo della macchina da presa a partire dal piccolo nucleo familiare di Cheol-ho (Kim Jin-kyu), impiegato onesto e disciplinato, fanaticamente devoto al proprio lavoro, e dalla povera casa in cui vive la famiglia in estrema povertà. Il fratello minore di Cheol-ho, Yeong-ho (Choi Moo-ryung), reduce e veterano di guerra, non trovando un impiego organizza una rapina in banca: in questa sequenza, che si sviluppa in un lungo inseguimento attraverso la città, Yu esplora i quartieri poveri di Seul e le persone che li abitano faticosamente, indugiando sui volti e su alcune azioni quotidiane. Contrappunto ideale del tentativo di Cheol-ho di “ricostruire” se stesso e il proprio paese, l’esperienza del fratello rappresenta invece un percorso di annichilimento che culmina con l’arresto. L’atmosfera angosciante e quasi claustrofobica di Obaltan viene amplificata dalla macchina da presa che segue e “pedina” i personaggi, quasi posandosi alle loro spalle, arretrando o avvicinandosi ai loro corpi con movimenti fluidi e precisi.
La medesima atmosfera smarrita e precaria pervade Hyeolmaek – Bloodline (1963) di Kim Soo-yong ambientato nel distretto di Haebangchon di Seul, sovraffollato e lugubre, in cui fioriscono però relazioni di generosa e inaspettata fratellanza. Anche in questo caso, sono gli uomini e la loro faticosa ricerca di riscatto e realizzazione a veicolare la narrazione e la successione di quadri autentici e definiti in cui si staglia un realismo autentico e incontaminato che esplode visivamente in alcuni maestosi piano sequenza: si pensi alla sequenza del corteo funebre.
La debolezza dell’uomo e l’ambizione delle donne sono invece al centro di due film apparentemente distanti fra loro: Hanyeo - La cameriera (1960) di Kim Ki-young, e Angae - Nebbia (1967) di Kim Soo-yong. Nel primo caso, una semplice cameriera (Lee Eun-sim), turba la modesta vita di una famiglia, infrangendone la struttura e conquistando un ruolo di inedito e sovversivo potere. Contaminazioni al limite dell’horror si riflettono sulla conturbante presenza del corpo femminile: i piedi, i capelli e le labbra della cameriera insidiano e conquistano lo sguardo di Dong-sik (Kim Jin-kyu), marito e coscienzioso capofamiglia.
Il corpo e la voce di Han In-suk (Yoon Jeong-hee) seducono invece Shin Seong-il (Yoon Gi-jung) nel film di Kim Soo-yong, costruito ricorrendo all’intreccio tra un flusso caotico di memoria e ricordi e inconfessabili pensieri proiettati sul futuro. Anche in questo caso, l’integrità morale dei personaggi viene intaccata, discussa e ambiguamente trasformata, rivelando la fragile essenza delle identità degli uomini e delle donne raccontate dal regista. Sia Hanyeo che Angae si concludono inaspettatamente, condividendo una sorta di gusto per il twist narrativo o almeno per il ripensamento e l’abolizione del racconto, subìto o agito dai personaggi stessi.