Quando si parla di Marcello Mastroianni, o di Eduardo De Filippo, o di Raquel Welch, o di Nino Rota, tutto viene in mente meno che Spara forte, più forte... non capisco, lungometraggio che li riunisce tutti assieme nella Napoli a cavallo tra il dopoguerra e il boom economico-turistico.
Nel 1966 De Filippo e Rota sono due professionisti affermati e di spicco nei rispettivi campi, Mastroianni è nel suo periodo d’oro di piena attività, e la Welch vive in pieno la sua parabola ascendente, tra gli esordi con Elvis Presley e la notorietà mondiale da sex symbol avuta con Un milione di anni fa. Eppure questo film paga forse proprio il fatto di sembrare troppo facilmente un’accozzaglia di personalità mainstream, messa insieme a suon di miliardi (di lire) per ottenere così quello che oggi chiamiamo "effetto blockbuster" al botteghino, cosa che, come risaputo, non era vista di buon occhio dalla critica, e che comunque non avvenne.
Nei rioni napoletani degli anni Sessanta, Alberto Saporito, uno scultore pop dilettante, abita nel magazzino che la sua ditta di famiglia utilizza per i materiali d’addobbo noleggiati in occasione di feste ed eventi. Insieme a lui vive zio Nicola che crea fuochi artificiali e comunica attraverso lo scoppio di petardi: "dice che se l’umanità è sorda, lui può permettersi di essere muto". Nel loro stesso palazzo abitano la famiglia Cimmaruta, in cui la moglie offre letture del futuro e cartomanzie truffaldine, e Tania, una prostituta piemontese con cui il protagonista instaura un rapporto di attrazione destinato all’unico lieto fine presente nel film.
Quando Alberto sogna il delitto del “cavalier” Aniello Amitrano da parte della famiglia Cimmaruta, il nostro scultore crede di aver vissuto veramente l’avvenimento e corre subito a denunciare il fatto alla polizia; ma all’assenza di prove Alberto è l’unico ad ammettere l’errore e cercare di ricostruire la verità mentre tutti gli altri personaggi, chi per un motivo chi per un altro, cominciano paradossalmente a credere ad un delitto di cui manca pure il cadavere. La serie di vicende e peripezie che ne scaturirà si risolve con la morte, questa volta reale, di Aniello Amitrano nella cantina dei Saporito, a causa dell’ennesimo esperimento pirotecnico di zio Nicola che fa esplodere l’intero palazzo e in cui lui stesso perde la vita.
Il film nel suo complesso, per merito e a causa del suo regista, vede gli elementi teatrali del testo originale Le voci di dentro imporsi sulla pellicola cinematografica, troppo veloce e frammentata per renderne ugualmente il senso. Questo confonde non poco lo spettatore in una visione che diventa pesantemente onirica nella parte centrale, e che invece nelle prime sequenze si era presentata come una commedia all’italiana in piena regola. Ciò non nega comunque al film dei punti di forza, a partire dalle musiche di Nino Rota che accompagnano alla perfezione e aiutano la comprensione delle atmosfere nei punti più critici.
Mastroianni, chiamato ad un’interpretazione molto diversa da quelle in cui siamo abituati a vederlo, non è l’ardente capo-rivoluzionario de I compagni né il famoso regista di “8 e 1/2”, ma riesce comunque a esprimere la sua prodigiosa qualità di interpretare e rendere perfettamente credibili personaggi propri di personalità opposte: codardo ma coraggioso nella pellicola di Monicelli, patetico ma carismatico con Fellini, confuso e debole quanto orgoglioso e giusto con De Filippo. Raquel Welch, nonostante venga introdotta come l’avvenente femme fatale in grado solamente di usare la sua bellezza per procurarsi un uomo “che ha i soldi”, si rivelerà invece più volte influente nella vicenda come personaggio attivo, e dotata di un orgoglio che non ha paura a difendere letteralmente a graffi e morsi.
Eduardo De Filippo, infine, al di là del difficile adattamento cinematografico di un suo stesso testo teatrale, riesce comunque a mostrarci la sua stoffa di grande regista in entrambi i campi. Infatti, la scena del sogno da cui tutta la vicenda ha origine sfrutta alla perfezione tutti gli elementi magici del cinema: dalle scenografie al montaggio, dalle musiche ai dialoghi, il personaggio che vive come brutalmente veri avvenimenti palesemente irreali sfociano in una sublime “battaglia dei ventagli”, che ci fa assaporare uno di quei sogni che tutti abbiamo fatto almeno una volta e che, spesso con rammarico, difficilmente ci ricordiamo al risveglio. Ma è in una scena dal sapore squisitamente teatrale che il tema dominante di tutta la vicenda prende corpo e si manifesta con prepotenza. Nel “palcoscenico” del magazzino di Alberto, infatti, il protagonista impaurito e preoccupato di una rappresaglia feroce da parte della famiglia ingiustamente accusata, ne riceve invece i membri uno ad uno, che paradossalmente iniziano a ringraziarlo e ne cercano la complicità, tirando fuori vecchi rancori familiari e accusandosi a vicenda del delitto. I personaggi entrano ed escono dalle porte della stanza come fossero delle quinte, per poi arrivare allo scontro nel finale di sequenza nel classico teatrale del “tutti in scena”.
Diffidenza e pregiudizio che prendono il sopravvento in una situazione di confusione sono i fili conduttori di questa storia che si innesta incredibilmente bene nel contesto sociale di oggi. Nel mondo delle fake news e delle facili condanne senza processo a causa di interessi che si muovono troppo veloci, Eduardo De Filippo ci ricorda che in situazioni di incertezza e difficoltà è sempre bene non lasciarsi trascinare, ma fermarsi e fare un esame di coscienza col quale identificare il vero nemico, così da combatterlo con decisione forza ed unità. Come ogni maestro che si rispetti però, quella di De Filippo è solo un’indicazione e non una verità assoluta: è lui stesso, infatti, nei panni di Zio Nicola, che ad un passo dal lieto fine ce lo nega facendo esplodere tutto mentre inneggia alla pace.