A volte non si sa dire cosa sia più grande, se il cinema o il mondo. Questa stupenda confusione è la ragion d’essere stessa di Grand Tour, ed è il motivo per cui la filmografia di Miguel Gomes, fatta di addii, fughe, sparizioni e quindi di luoghi desiderati e subito disertati, è oggi uno dei pochi posti in cui la finzione ancora si lascia inseguire dalla cosiddetta realtà.

Il cinema di Gomes circumnaviga il mondo e così si gioca un’utopia tutta sua: non si accontenta di esistere in una porzione circoscrivibile di realtà e di assomigliarle, ma scommette di far accadere in quello spazio fisicamente limitato – più che lo schermo di per sé, quanto sta tra la macchina da presa e lo schermo, la distanza che ogni giorno, ogni notte chissà quante volte un proiettore trasforma in un fascio di luce – un ulteriore pezzo di mondo che prima non c’era, e nel farlo ne inventa le regole per poi sempre stravolgerle.

Se c’è un aspetto riconoscibilmente classico nei film di Gomes (ma non di tutti o non del tutto: non credo che questo discorso valga necessariamente per A cara que mereces e Aquele querido mês de agosto, e più di un racconto delle Mille e una notte lo elude), un’affinità col cinema primonovecentesco che Grand Tour eredita da Tabu, è questa volontà fortissima dell’autore e del suo Comitato centrale di farli muovere (forse viaggiare?) liberamente tra gioco della fantasia e limiti della narrazione stessa, e così di far intervenire i limiti proprio quando sembra che il gioco prevalga, e viceversa. È la linea di Rossellini, Renoir, Dovzenko, Murnau, ma anche di due grandi “barbari in Asia”, Josef von Sternberg e Chris Marker, le cui ombre complementari con più certezza di altre si distinguono nell’alternanza pellicolare tra bianco e nero e colore di Grand Tour.

L’epicentro del film sta in poche pagine di Somerset Maugham. Nel sesto capitolo di Il signore in salotto, cronaca di un lungo viaggio degli anni Venti tra Birmania, Siam e Indocina, l’anonimo segretario di un circolo per occidentali sulle rive del fiume Irrawaddy, tra Pagan e Mandalay, racconta allo scrittore britannico la storia di un funzionario inglese che otto anni prima, raggiunto da Londra dalla fidanzata pronta a sposarsi dopo sette anni di separazione, fuggì in preda al «coraggio della disperazione».

Le tappe della peripezia orientale sono all’incirca le stesse – Rangoon, Singapore, Bangkok, Saigon, Manila, Kyoto al posto di Hong Kong, Shangai, Chengdu – e, rispettando l’andamento del travelogue, Gomes dona a Grand Tour l’ampiezza e l’attrattiva di un film-atlante; mentre i nomi no: George e Mabel diventano Edward e Molly. A ciascuno dei due spetta una metà esatta del film. Nella prima Edward fugge dalla radice della sua inquietudine e dall’incapacità di partecipare alla vita, fugge il mondo nella sua stessa enormità, che infatti lo assedia con persone abiti mercati compiti rumori, e durante la sua fuga senza fine lascia dietro di sé un pezzo alla volta della persona che era.

Il suo grande de-tour è quello dell’uomo che scopre in sé il desiderio di (dis)perdersi e che, nello scenario di una natura ammaliante che sa esprimere le proprie sfumature emozionali (il panda prima solo, poi in coppia, infine di nuovo solo) senza parole né spiegazioni, sembra esserci riuscito solo dopo aver ammesso di essere scappato per paura di amare e di essere amato (e qui colpisce, anche rispetto all’interrogazione inesausta dei rispettivi registi sul carattere trascendente della finzione, la consanguineità di Grand Tour con gli altri film insieme sentimentali e teorici visti in sala quest’anno, non a caso i più belli: May December, Racconto di due stagioni, The Beast).

Nei suoi ultimi fotogrammi, avvolto dal fumo delle pipe, Edward ripete alla fine di ogni frase il nome di Molly, come volesse finalmente invocarne la presenza quando più crede di essere irraggiungibile (e se quanto segue fosse un’allucinazione indotta dall’oppio? Gomes ama tanto l’interazione disinibita tra l’immaginazione del pubblico e gli infiniti significati delle immagini da lasciarci chiedere anche questo). Allora, dopo un primo piano in cui chiude gli occhi e sorride, lui scompare ed entra in scena lei.

Le avventure di Molly, che ricorda per determinatezza certe donne di Conrad, come la Flora de Barral di Il caso, sono davvero romanzesche o addirittura novellistiche, tanto che incontra nel mercante di bestiame Mr. Sanders un nobile spasimante e nella soave Ngoc un’aiutante quasi fatata, mentre lungo la sua quête sulle tracce di Edward raccoglie le storie degli altri personaggi, i loro aneddoti e le bugie che si raccontano, alimentati dall’inclinazione assoluta di Gomes per l’affabulazione e l’intarsio narrativo (oltre che da un’identificazione attoriale: Crista Alfaiate è sia Molly sia Sheherazade nelle Mille e una notte, Grand Tour sarà la sua milleduesima notte). Inizialmente divertita, poi sempre più ossessiva e cupa, la ricerca di Molly la conduce negli stessi porti, città e foreste dove poco prima è passato Edward con un ritardo ridicolo e fatale.

La sua morte, è vero, è sovrapponibile all’eclissi di Edward, dato che la radura tra i bambù, i comprimari del Sichuan, persino il primo piano sugli occhi chiusi sono identici. Ma per lei, che ha rischiato tutto per troppa fame di vita, e ha deciso di credere ostinatamente alla sua versione della fuga di Edward, il cinema può spingersi oltre i confini della realtà conosciuta, forse fino a una resurrezione ironica e smarrita. Edward si dilegua nel mondo, il viaggio di Molly continua dove il film sembra finire, nel fuori campo.

Si può vedere allora Grand Tour come una storia di smarrimento felice, perché si tratta di uno smarrimento che in fondo un uomo e una donna hanno scelto, che il regista stesso ha scelto per sé e il pubblico. Infatti Gomes, da collaudato sabotatore della verosimiglianza quale ha dimostrato di essere in Diários de Otsoga, ha fatto di tutto per boicottare la logica della narrazione tradizionale, di cui comunque non smette di essere un amante infedele: ricostruzioni in studio dichiaratamente finte; parodia dell’esotismo hollywoodiano attraverso l’ibridazione dei suoi generi fondativi (melodramma, screwball, spionaggio); voci narranti in almeno otto lingue diverse, una per ogni paese attraversato dai protagonisti; portoghese usato come lingua madre dei personaggi inglesi e trasversale a tutti gli altri; e soprattutto innesti splendidi di riprese di repertorio successive di un secolo al 1918 della storia, le quali stravolgono ambientazione e atmosfera della vicenda.

Confutando il passato con le immagini di un futuro che in realtà è presente, mostrando un continente come sarà cento e passa anni dopo il passaggio di Edward e Molly sulla Terra, Gomes denuncia l’incanto spregiudicato della finzione in 35mm e la confonde volutamente con l’estensione del mondo e del suo tempo. In Grand Tour il cinema colonizza la Storia, la tratta come un objet trouvé. Qualcosa di smarrito sin dall’inizio.