"Io odio la realtà, ma è ancora l'unico posto in cui trovare una buona bistecca".
La fuga dalla realtà caratterizza Woody Allen sin da quando, da ragazzo, saltava la scuola per trovare un riparo fisico e spirituale nei cinema newyorchesi. Avvolto dalla magia oscura e confortevole della sala cinematografica, lasciava all'esterno il mondo con i suoi problemi per calarsi in avventure esotiche, fantasticando di sorseggiare cocktail negli attici di Park Avenue come Cary Grant, Katharine Hepburn e Spencer Tracy. Tale tendenza ha finito inevitabilmente con il permeare il proprio cinema, in cui spesso si verifica una destrutturazione del personaggio tramite sogni, ricordi, azioni alienanti, l'immagine stessa, creando un microcosmo, abitato dall'alter ego alleniano, che si pone non solo come evasione dall'esistenza, per lui effimera e angosciosa, ma anche come atto autoanalitico per esaminare la propria vita, il passato e le passioni.
Osservando la sua filmografia in quest'ottica, si nota come il cinema di Allen sia andato verso una scollatura sempre più grande tra la sua visione e la realtà, il ritorno alla quale diventa ogni volta più brusco; un'evoluzione esemplificata soprattutto da Midnight in Paris. Rifkin's Festival, il nuovo film uscito finalmente nelle sale, ne rappresenta un'ulteriore e crepuscolare prova. Narrativamente affine proprio al film parigino e a Un giorno di pioggia a New York, segue le vicende di una coppia americana che durante un viaggio, questa volta a San Sebastián per il Festival del cinema, si trova a trascorrere le giornate separatamente. Lui, Rifkin, è un ex insegnante di cinema, amante dei classici europei, che sta provando a scrivere un romanzo; lei è un'addetta stampa, a San Sebastián per lavoro.
Quale occasione migliore di un Festival cinematografico per una pausa dal mondo reale? Eppure Allen non si riconosce più nel cinema contemporaneo, osservato tramite il personaggio di un giovane regista tanto presuntuoso quanto apatico, il cui cinema pretenzioso si lega alla politica più effimera. D'altronde, "al giorno d'oggi, ogni film che si occupa di realtà la critica lo considera arte", ammette lui stesso con aria vacua. Per ristabilirne il distacco, ad Allen non rimane che creare un proprio festival, il Festival di Rifkin, l'ultimo degli alter ego alleniani, interpretato da un Wallace Shawn al tempo stesso accigliato e bonario, perfetto nella parte del tipico "borghesuccio ebreo del Bronx" alleniano.
L'ex insegnante rivive la propria vita tramite evasioni oniriche che prendono la forma dei classici del cinema da lui più amati, da Welles a Fellini, da Truffaut a Bergman. Sequenze in cui si avverte appassionato l'amore di Woody Allen per quei film e la voglia mitigata di affabularlo e celarlo. Il suo cinema si è sempre nutrito di citazioni e omaggi ai suoi "maestri", principalmente gli stessi Fellini e Bergman, si pensi ad esempio a Stardust Memories e Harry a pezzi, che riecheggiano in Rifkin's Festival, ma quasi mai in modo così manifesto e dichiarato. Se prima, dunque, era il cinema a pervadere la dimensione alleniana, talvolta fuoriuscendo letteralmente dallo schermo, adesso è il contrario, senza più filtri e sfumature, marcato dal passaggio al bianco e nero come atto di modulazione alienante.
Mort Rifkin racchiude la maggior parte delle caratteristiche e dei temi rituali della poetica di Allen, con una declinazione però di maggior senilità. Il suo è un vagare dimesso e disilluso, meno catalizzato e difficilmente lenibile dalle riflessioni esistenziali. Sospettando che la moglie abbia una relazione con il giovane regista e consapevole che il proprio matrimonio si stia sfaldando, si innamora di una bella dottoressa con cui condivide l'amore per New York e per il cinema classico francese. È un amore tuttavia impossibile, un vano sogno romantico che non ha possibilità di concretizzarsi e che spezza la tradizione dell'istrionico tombeur de femmes spesso incarnata dai suoi alter ego.
Il ritorno alla realtà ha un sapore dunque più amaro e malinconico e Rifkin deve accettare la disillusione e l'inafferrabilità delle risposte che andiamo ricercando, tanto che la risposta finale dello psicoanalista, personaggio immancabile che qui svolge il ruolo di cornice del racconto, risulta inudibile. L'unico sollievo, porto sicuro spirituale, è sempre più lontano dalla realtà, ammantato dalle immagini del cinema che ama e che utilizza per rileggere la propria vita, facendo i conti con sé stesso anche tramite rievocazioni dei film da lui girati. Rifkin's Festival, cinquantesima regia cinematografica, è sì un film imperfetto, ma rappresenta un'ulteriore e rilevante tappa nel percorso cinematografico di Woody Allen, la cui passione e sagacia risultano invariate.