Mentre guida il suo furgone trasportando droga per il cartello messicano, il novantenne Earl Stone ascolta Dean Martin che sulle note della famosa Ain’t That a Kick in the Head? canta “How lucky can one guy be? I kissed her and she kissed me” [Quanto può essere fortunato un ragazzo? L’ho baciata e lei mi ha baciato]. Questa scena di The Mule - storia vera e incredibile di Leo Sharp, nonno americano che diventa corriere di droga, ma anche storia on the road again di un regista che a 89 anni non ha finito di dirci quel che ha da dire - ci introduce, con scanzonata leggerezza e ironia, al tema complesso e potenzialmente doloroso che Eastwood ha deciso di indagare attraverso il film: quello della ricerca della felicità nel tempo che ci è concesso vivere, della realizzazione di se stessi nell’arco di una vita.
Due infatti sono i livelli narrativi su cui si snoda The Mule: da un parte la storia vera di Sharp - balzata agli onori della cronaca nel 2014 sul New York Times grazie all’articolo del giornalista Sam Dolnick - e dall’altra il racconto della vecchiaia come indubbio ed evidente limite fisico ma anche come estrema risorsa per rimettersi in gioco e percorrere consapevolmente le ultime tappe del viaggio. Sull’eccezionalità della vita di Leo Sharp non abbiamo dubbi: nato nel 1924, veterano della Seconda Guerra Mondiale, proprietario di una piccola compagnia aerea presto fallita e poi floricoltore di grande successo, pluri-premiato per le tante varietà di emerocallidi di sua creazione ed infine - in seguito all’avvento di internet e al crollo delle vendite della sua attività - corriere ottuagenario (e poi nonagenario) della droga per il cartello messicano di Sinaloa.
È bello immaginare che i semi da cui è germogliato questo film possano esser stati gettati nel momento in cui Clint Eastwood - un po’ come Walt Kowalsky che legge il giornale nella sua veranda in Gran Torino - si è imbattuto nell’articolo di Dolnick su Sharp, provando magari un’istantanea simpatia per il suo quasi coetaneo e fiutando il materiale prezioso nascosto in quella strana parabola umana.
La storia di Sharp, che nel film diventa Earl Stone, ha infatti dato modo a Eastwood di proseguire quella riflessione sulla vecchiaia già iniziata in Gran Torino, approfondendo questa volta altri temi: il rimpianto per scelte sbagliate e occasioni perse, la possibilità di riscatto, il non arrendersi agli anni e cercare di godersi la vita. Quella vita fatta anche di piccoli gesti e semplici piaceri come - ci racconta Eastwood - accompagnare la figlia all’altare e fermarsi per strada a mangiare il panino al maiale più buono del mondo. Earl invece ha trascorso una vita ad inseguire il lavoro e a trascurare metodicamente la famiglia. Eppure il fallimento della sua attività può diventare il motore di una rinascita - tardiva, dolorosa, sbagliata, criminosa, divertente e pericolosa ma pur sempre rinascita - nel momento esatto della vita in cui i suoi coetanei invece che a rinascere pensano a morire.
Ma lo spiraglio che Eastwood apre sulla possibile vocazione salvifica della vecchiaia è ben lontano dall’essere rassicurante e pacificatore. Clint dirige se stesso - cosa che non faceva dal 2008 in Gran Torino - e il suo corpo quasi novantenne, senza nessuna pietà: la fragilità fisica emerge nella sua brutalità, nelle inquadrature impietose della sua andatura incerta, in quelle del volto dalla pelle sottile e rugosa addensata intorno a quei famosi occhi di ghiaccio ormai acquosi, nei primi piani insistiti ai piedi malfermi che ad ogni falcata cercano l’equilibrio.
Eppure il contrasto fra queste fragilità e la forza quasi disumana di opporsi alla fatica, agli anni che passano, al cambiamento dei punti di riferimento, paradossalmente donano a questo Stone - e a Eastwood che lo interpreta - una sfrontata grandezza e una ieraticità che cresce di scena in scena. Fino al climax dell’inseguimento stradale che vede schierati elicotteri, agenti e armi da fuoco contro un novantenne solo e disarmato, che però fino all’ultimo si gioca le sue carte. “Many moons I have lived / My body’s weathered and worn / Ask yourself how would you be / If you didn’t know the day you were born” [Ho vissuto molte lune / Il mio corpo è segnato e consumato / Chiediti come staresti / Se non conoscessi il giorno in cui sei nato] canta Toby Keith nel ritornello della struggente ballata country Don’t Let the Old Man in, canzone nata dopo una chiacchierata fra regista e musicista che scherzavano sulla morte e poi posta a perfetta didascalia dell’intero film.
Ma i toni drammatici del film sono compensati e perfettamente equilibrati dal registro da commedia brillante e dalle tante e irresistibili battute fulminanti, spesso - come tradizione eastwoodiana comanda- politicamente scorrette. Questo grazie anche all’ottima sceneggiatura, firmata da Nick Schenk, già autore di Gran Torino e di The Judge (in cui Robert Duvall interpreta un altro grande vecchio). Il duello, sempre sul filo dell’ironia, è a chi provoca di più: nel vocabolario di Earl non mancano negri e mangiafagioli ma a lui stesso non vengono risparmiati epiteti dispregiativi e derisioni e, alla fine del film, nemmeno la sciabolata sulla sua proverbiale irreperibilità.
Attorno ad Earl - protagonista fragile e fortissimo al tempo stesso - Eastwood fa girare una costellazione di personaggi secondari di grande e imperfetta umanità. Primo fra tutti l’agente della Dea Colin (Bradley Cooper, già intensissimo interprete eastwoodiano in American Sniper), una sorta di alter ego dell’ispettore Callaghan sempre in procinto di esser licenziato, che insegue Earl per anni, lo incontra a sua insaputa instaurando con lui un rapporto quasi filiale durante una breve chiacchierata al bar, e infine arriva a portare a termine la sua missione prima con grande stupore e poi con affettuosa comprensione. La moglie Mary (Dianne West) esasperata dall’assenza del marito ma ancora innamorata e consapevole, fino alla fine, della sua ricchezza umana. Il criminale Julio (Ignacio Serricchio) che segue Earl nelle consegne di droga, si affeziona a lui ma - in una nemesi generazionale che vuole i giovani meno coraggiosi dei vecchi - non trova la forza di cambiare vita. Infine la figlia - nella finzione come nella realtà - Iris (Alison Eastwood), ferita da un padre che le ha sempre preferito altri e altro, ma del quale riesce a comprendere il cambiamento e quel suo tardo, umanissimo e poetico sbocciare.