La famiglia è più importante del lavoro. E questo Eastwood ce lo spiega in maniera cristallina nel primo trailer di The Mule. Assieme al fatto che non ha mai rispettato questo diktat, che contrabbanda cocaina e che qualcuno vuole arrestarlo. Ecco, dilatate il trailer fino a due ore e avrete tutto il film. Perché era già tutto lì, condensato in due minuti che si aggrappano ai tuoi occhi molto più del prodotto finito. The Mule parte da un tema forte (famiglia più importante del lavoro, appunto), granitico, apicale per Eastwood stesso, e lo rende testuale fino alla nausea. Il concetto viene ribadito incessantemente, e non tramite immagini, metafore o dialoghi graffianti. No, viene letteralmente detto, decine di volte, come ripetendo un mantra didascalico, come se lo spettatore fosse un bambino un po' lento di comprendonio che Eastwood deve prendere per mano, facendolo sedere sulle ginocchia e raccontandogli la storia che sì, indovinate un po', se anteponi il lavoro alla famiglia avrai una vita di rimpianti.
È come se Nick Schenk (già sceneggiatore di Gran Torino) si fosse dimenticato una delle regole fondamentali del suo mestiere: il sottotesto. The Mule è ipertestuale, ai limiti della prevedibilità, suggerendo un arco narrativo stancamente intuibile fin dal prologo-antefatto. Gli unici guizzi di scrittura ce li regala Eastwood, con i suoi commenti caustici disseminati qua e là in un film ampiamente sfrondabile nel minutaggio (a partire dalla festa nella villa di Andy Garcia). Perché il blocco centrale di The Mule è una lunga sequenza episodica che, raccontata la prima puntata, si ripete pressoché uguale viaggio dopo viaggio, consegna dopo consegna.
E in mezzo ai road trip spunta la DEA, che vuole acciuffare più criminali possibili. Il comparto dei buoni è composto da Poliziotto #1 (Bradley Cooper), Poliziotto #2 (Michael Peña) e Poliziotto Capo (Laurence Fishburne), quest'ultimo talmente approfondito che nei credits risulta come “Agente speciale DEA”. Tutti abbozzati al limite dello stereotipo, nonostante a Bradley Cooper venga consegnata l'equivalente della scena “sono un soldato in Vietnam e guardo in continuazione la foto della mia fidanzata per dare spessore al personaggio”.
E fortuna che il magnetismo di Eastwood ci tiene comunque agganciati, facendoci solcare con gli occhi le sue rughe, i suoi ghigni, i sorrisi tirati e il dolore puro, che solo il suo essere granitico piegato dall'età riesce a esteriorizzare così bene. Eastwood rende epica la sua umiltà, tratteggiando un pastorello che diventa Re, anche solo per una notte. “Sbalordiscili alla fine e avrai un successo” diceva Robert McKee ne Il ladro di orchidee. Eastwood lo fa a modo suo, restando duro e puro e risollevando in extremis un prodotto stanco, con poche e spente idee. Fortuna che Clint non è sbocciato tardi.