“Fate molto male a ridere. Al mio mulo non piace la gente che ride. Ha subito l'impressione che si rida di lui. Ma se mi promettete di chiedergli scusa, con un paio di calci in bocca ve la caverete.”
In un attimo era nato Clint Eastwood. Sulla fulminante indirettezza di linguaggio di Leone, che fa fare un balzo avanti di trent'anni al cinema popolare non meno della regia, collocando i suoi eroi sempre al di là di feticistici correlativi oggettivi, si fonda l'ultimo grande mito del West, addirittura suo Spirito in Rango (2011) del leoniano Gore Verbinski. Un ragazzo di San Francisco che - a suo dire - non aveva mai preso in mano un'arma da fuoco prima di arrivare su un set, nè l'ha mai fatto dopo. Più in là, in bocca al suo Brutto cantore Eli Wallach: "sto cercando mezzo sigaro.. (pausa).. con dietro la faccia di un gran figlio di puttana alto, biondo e che parla poco".
Potrà anche essere giusto vedere nel nostro western un imbarbarimento rispetto alle facce pulite di Cooper, Wayne, Stuart & co, ma non va dimenticato quest'altro apporto smaccatamente mitologico, trascendente di Leone al genere. È uno dei due registi che sbozzano Clint Eastwood attore, indirettamente determinandone il futuro percorso registico fino alla consacrazione con Gli spietati (1992) e la sua dedica a "Sergio and Don". "Don" è Don Siegel, che trova un Uomo senza nome e gli dà un nome che è per sempre: Harry Callaghan. Così facendo lo vota alla sua poetica, non più sardonica e impalpabile apparizione ma uomo di carne e sangue che vive nel nostro mondo, e non ci va d'accordo. Sarà Eastwood stesso a dare il primo, grande seguito a Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!. Titolo Sudden Impact, impatto improvviso. Miglior sintesi non c'è.
Quando passa dietro la macchina da presa ha per le mani l'arma totale, la propria icona. Che in tanti anni sia riuscito a non soccombere alla sua aura ambigua, facendo delle intuizioni dei due maestri che gliel'hanno approntata la linfa di un cinema tutto nuovo, è un'autentica impresa. Neanche i più talentuosi fra gli epigoni (Costner, Gibson) possono dire altrettanto. Tutti i film dell'Eastwood regista, non solo la ventina dove si dirige, hanno da sfondo quel formidabile corpo cinematico in cui coesistono due declinazioni assolutamente non sovrapponibili dell'alterità, il trascendente e il conflittuale; riportate al suo proprio mondo - che ha tutto a che fare col valore e ben poco col superomismo, dove mito non vuol dire favola ma civiltà, in cui il singolo è straordinario nel contesto - compongono una dialettica straziante dell'eroismo americano.
Se, come si è spesso detto, parliamo di un cinema della bandiera, la bandiera è lisa e macchiata; l'eroe eastwoodiano non finisce sulla moneta se non scontandone l'altra faccia: dolore, inadeguatezza, rimpianto su cui misurare la distanza fra monumento e uomo, in anni recenti con toni di vera e propria schizofrenia. In Flags of Our Fathers (2006) invisibile dietro l'icona del valoroso che regge la bandiera americana a Iwo Jima in una delle immagini più celebri del '900, Ira Hayes muore solo e avvelenato dal Whisky nella riserva indiana da cui era partito per servire il suo paese. "Guarda: Sully è qui..ed è anche lì" dice in Sully (2016) l'avventore di un bar indicando ora l'eroe intervistato al tg, ora l'uomo al suo fianco, roso dal dubbio di aver rischiato la vita di centinaia di persone. La "leggenda" Chris Kyle di American Sniper (2014) era un sempliciotto divorato dal rimorso che vedeva la guerra nella tv spenta. Il mite vedovo William Munny, che alla fine di Gli Spietati si produceva in una catartica vendetta armata, un assassino di "donne e bambini, e creature che camminano e strisciano, in tempi lontani"..
In questo senso Il corriere - The Mule è un Eastwood da manuale. Ottantottenne torna a recitare nei panni di Earl Stone, anziano floricoltore e viveur in ristrettezze economiche che mentre tenta di riallacciare i rapporti con la famiglia che ha sempre trascurato accetta di fare da insospettabile corriere di quella che scoprirà essere cocaina, per tipacci che si scopriranno appartenere al Cartello messicano. Road movie della senescenza come Up e Una storia vera, è – fin dal tono conteso fra dramma e dolce ironia - l'ennesimo ritratto eroico bifido: il paladino dei valori di una volta, che salva con una donazione il circolo dei veterani del Vietnam, che porta gli amici a mangiare il miglior maiale arrosto del Midwest, coccola le signore, ripara moto e macchine e ammonisce sui rischi del web..responsabile di un bel po' di consegne "in bianco". Nell'espressione Drug Mule, gergo che designa un corriere, c'è tutto il buono (il brutto) e il cattivo del personaggio, adorabile bisbetico ma impermeabile al sentimento di appartenenza, gran lavoratore ma anche servo (dis)obbediente con la morte nelle bisacce. Era stato un mulo a trasformare l'uomo Clint in mito. Ci vuole un mulo per compiere il percorso opposto.
Alison Eastwood, figlia sullo schermo e nella vita, si è dichiarata felice di lavorare col padre "per stargli finalmente vicina", rendendo ancor più difficile scindere il film dal suo ostentato autobiografismo. Ma Il corriere – The Mule – pur somigliandogli fino al déjà-vu – non è l'eliocentrismo redfordiano di Old Man and the Gun, perchè trova più ampio respiro in un discorso già aperto e composito. Il floricoltore Earl si può mettere fra i grandi ritratti eastwoodiani di artisti come Bird e Honkytonk Man, dove dei limiti dell'uomo faceva le spese la famiglia, quella di Charlie "Bird" Parker funestata dal suo bipolarismo e dall'eroina, quella del tisico cantante country (di cui Eastwood - che canticchia per tutto il film uno standard di Nashville dopo l'altro - in The Mule sembra ricordarsi) tanto lontana che lui si presentava al nipote, anche in quel caso interpretato dal vero figlio Kyle, da perfetto sconosciuto.
Il regista può così parlare di sé come da un'intercapedine, storia fra storie nell'affollata galleria che viene allestendo da ormai cinquant'anni. Parla di libertà, anzi parla libertà, concedendosi come un ballo o un pranzo, come un ultimo respiro, un frasario con cui sa bene che nessuno che non abbia 89 anni e non si chiami Clint Eastwood potrebbe mai cavarsela oggi. Cupamente in pari col paese reale – come quando gli agenti DEA perquisiscono un messicano, "statisticamente i cinque minuti più pericolosi della mia vita!" - lui, che non votò Trump ma aveva dichiarato di preferirlo all'avversaria Clinton perchè "almeno dice quello che pensa", sposa in un dolly finale da K. O. l'ormai famigerato muro del presidente-barzelletta e quello, nominalmente la barricata opposta, della Hollywood che gli è sempre stata famiglia. “Almeno adesso sapremo dove trovarti.”
Era Gran Torino, la commedia leggera.