Chi era Albert Speer? Il “nazista buono” che si oppose a Hitler negli ultimi anni del Reich, o “l’architetto del diavolo” pienamente consapevole delle atrocità commesse dal regime? Una cosa è certa: Albert Speer fu un nazista e, in quanto nazista, complice e oppressore. A sei anni da L’uomo per bene - Le lettere segrete di Heinrich Himmler, Vanessa Lapa torna a raccontare le ambiguità dei carnefici, soffermandosi sulle loro enigmatiche personalità. Speer Goes to Hollywood racconta la storia di uno dei fautori della Germania nazista, del mito di “partecipante estraneo ai fatti” che egli stesso costruì per sopravvivere al processo di Norimberga e di un caso peculiare che costituisce il fulcro della narrazione.
La particolarità del documentario risiede nel punto di vista sull’azione: è il 1971, Albert Speer ha scontato vent’anni di reclusione a Spandau e conduce una vita ritirata in una casa di campagna. Ha appena pubblicato un libro che è diventato un best-seller, Memorie del Terzo Reich, e Andrew Birkin — fratello di Jane e assistente di Stanley Kubrick — ne sta curando una sceneggiatura per conto della Paramount Pictures. Una selezione delle quaranta ore di registrazioni audio effettuate da Birkin (qui opportunamente doppiate) si sovrappone a materiale d’archivio tratto da quarantasette fonti video, un lavoro monumentale che mira a svelare le manipolazioni seduttive di un uomo che passò il resto della vita a minimizzare il proprio ruolo nel Reich.
Sì, perché Albert Speer più che architetto fu “scenografo di partito”, e dall’ammodernamento della sede berlinese con cui conquistò le simpatie del führer passò a esaltare le connotazioni dittatoriali del nazismo con trovate ingegnose. La cerimonia dell’insediamento di Hitler presso la Porta di Brandeburgo, per esempio, trova in Speer un abile orchestratore alla stregua di un direttore della fotografia: non a caso insiste nell’organizzarla di notte per mettere in scena un complesso gioco di luci che esalti i protagonisti della celebrazione. Da architetto a ministro del Reich per gli armamenti e la produzione bellica il passo è breve e, sebbene Speer non abbia alcuna esperienza nel campo dell’industria, raggiunge traguardi notevole grazie all’utilizzo estremo della manodopera, che sfrutta in condizioni di schiavitù.
Al processo di Norimberga Speer prende ampiamente le distanze dagli altri gerarchi nazisti, ripetendo di essere all’oscuro delle atrocità perpetrate nei campi. Questo ritratto del tecnocrate freddo e “super partes”, unito alle testimonianze di un pentimento avvenuto negli ultimi anni della guerra, hanno risparmiato Speer dal cappio, ma non dalle accuse. E se Wiesenthal, il celebre “cacciatore di nazisti”, addusse che Speer fu salvato dalla pena di morte solo per insufficienza di prove, Vanessa Lapa aggiunge al materiale storico una dose di ambiguità e incoerenze che non possiamo ignorare.
Riascoltando i dialoghi tra Speer e Birkin quel che emerge è un narcisismo di fondo, unito a un’abnegazione spaventosa. Le amnesie selettive dell’architetto di Hitler non convincono, non possono convincere, convince invece il suo ingombrante cinismo che come un “rospo in gola” spunta da ogni scelta di parole. Quando Birkin lo mette davanti alla prova del fatto che Speer fosse presente durante il discorso di Himmler che annunciava l’intenzione di sterminare l’intero popolo ebraico, l’ex-nazista risponde sprezzante “Would it be better for the movie if I was?”, come a dire: “è davvero utile alla nostra sceneggiatura questo particolare?”
Man mano che delinea il progetto filmico, Birkin appare un po’ troppo irretito e accondiscendente verso la figura di Albert Speer, tanto che serviranno gli interventi esterni di Carol Reed e Kubrick per riportarlo sulla terra ferma. Emblematico l’episodio in cui Birkin paragona lo Speer trentenne a Marlon Brano e propone Mark Burns per interpretarne il ruolo. Nel pensare a Donald Pleasence per la parte di Hitler si pone il dilemma etico: i genitori di sua moglie sono sopravvissuti all’Olocausto e Speer afferma con diplomatismo serafico che non ha certo intenzione di offendere i sentimenti degli ebrei. Ma non basta raccontarsi come un Faust che per una serie di fortuite coincidenze ha trovato in Hitler il suo Mefistofele, la sceneggiatura della sua vita risulta un tentativo troppo contorto di apparire “apolitico”.
La Paramount non rischierà di produrre un progetto tanto controverso e l’idea del film finisce nel dimenticatoio. Cosa sarebbe accaduto se Andrew Birkin avesse assecondato meno le narrazioni di Speer? La risposta ci è negata, così come ci è impossibile leggere e giudicare il frutto di quei mesi di lavoro. La cosa che possiamo fare, grazie al lavoro di Vanessa Lapa, è ragionare ancora una volta sulle infinite possibilità della manipolazione e su quanto sia facile rimaneggiare la memoria in nome di una prospettiva non condivisa.