“Nel 2009 sono riuscito ad entrare a Gaza e avevo con me solo la mia testardaggine e la telecamera. Non ero un giornalista, riprendevo semplicemente ciò che accadeva. Ne è risultato Piombo Fuso. Quando ho montato quelle immagini mi sono reso conto di quanto fossero naïf, erano immagini di morte e distruzione che raccontavano una storia già conosciuta ma non reale”.
Come si racconta la guerra? Stefano Savona conosce bene i rischi della narrazione e ha già sperimentato l’amaro misconoscimento di Piombo Fuso, sua opera prima sul conflitto Israele-Striscia di Gaza. L’evoluzione del regista da Piombo Fuso alla Strada dei Samouni, ultimo documentario vincitore dell’Oeil d’Or al Festival di Cannes 2018, è un percorso tutt’altro che agevole, che lo ha portato a confrontarsi con la delicata funzione demiurgica dell’arte e della relativa influenza (spesso sottovalutata) del cinema sull’immaginario collettivo. Per comprendere al meglio, zoomiamo su una scena significativa di Piombo Fuso: una bambina palestinese, avrà non più di tre anni, cammina da sola, su una strada di campagna circondata dalle macerie, una capra sullo sfondo e due rondinelle affamate; con sguardo spaventato e circospetto rivolge la sua attenzione verso l’alto, il suono dei caccia e delle bombe in lontananza si fa largo nel silenzio assordante. Così, si accascia per terra e, piangendo, chiama “mamma!”; ma la madre non arriva. Stacco sulla scena successiva. Non sapremo più niente di quella bambina, né degli altri.
Questa scena, assieme ad altre simili nei contenuti, è stata di fondamentale importanza per il cineasta antropologo, poiché ha determinato la cifra stilistica del suo lavoro successivo. Beninteso, la differenza tra le due opere va ben oltre il mero esercizio di stile, è bensì insita nella consapevolezza della responsabilità dello sguardo dell’artista-testimone. Savona propone il suo sguardo, in una scena che voleva essere in sé un atto di accusa per l’assurdità della guerra. In realtà, la percezione del pubblico si è rivelata fatalmente discorde: assistendo al vagare dei bambini per le strade di Gaza, è sembrato, ad alcuni, che la scena volesse comunicare l’indifferenza arida dei genitori palestinesi, il loro abbandonare i propri figli per strada come pesanti oggetti di scarso valore, anch’essi macerie. Ma il fatto ancor più grave, è, per il regista, che l’immagine alimentasse la presunzione occidentale di essere migliori, come individui singoli ma anche come popolazione.
Questo è il punto: essere responsabili per coloro i quali non hanno la possibilità di parlare. La cinepresa è lo strumento mediante il quale si può testimoniare e rendere la testimonianza racconto, la cinepresa è il ponte tra lo spettatore e il raccontato. Il regista, da demiurgo, si assume il compito di strappare il velo di Maya e influire sull’immaginario, ma il rischio che corre è quello di contribuire all’alterazione della percezione, individuale e collettiva, della realtà. Con le naturali eccezioni, la nostra conoscenza dei fatti di Gaza è mediata dai racconti di terzi: politici, giornalisti, saggisti e, in questo caso, registi che sono stati (e neanche tutti) in quei luoghi, modellano la storia e la narrano. Ci siamo abituati a immaginare che i palestinesi siano diventati professionisti del martirio e la storia contemporanea ce li propone e propina così. Questo è l’immaginario attuale. Questo è ciò che racconta Savona: “Andiamo là e ci sentiamo migliori solo per il fatto di esserci. Invece la mia telecamera, seppur in buona fede, contribuiva alla ripetizione di un cliché. Ho raccontato una tragedia senza eroi. E allora ho pensato: come posso rendere giustizia a queste persone e uscire dall’autocompiacimento delle macerie che ci fanno sentire migliori? È utile capire quali siano le dinamiche sul posto, le differenze tra una persona e l’altra. Volevo trasmettere col cinema l’empatia e la diversità. Attraverso le eccezioni il cinema può raccontare la regola. La storia è sempre la stessa, una non-storia di macerie e martirio. Con La strada dei Samouni cerco di raccontare una storia di resistenza, alla guerra e ai cliché, di individui che affermano la loro individualità in un contesto che aliena il singolo. Qualcuno di loro vi piacerà, altri li odierete, ma è così per tutti. Ognuno di noi, e di loro, deve avere il diritto di essere un cialtrone o un eroe, senza per questo dover essere etichettato sulla base del popolo al quale appartiene. Non per forza si deve essere un popolo di eroi o terroristi”.
In La strada dei Samouni, il compimento del processo evolutivo di consapevolezza, etica e artistica, di Stefano Savona, grazie anche alle suggestive animazioni di Simone Massi, prende corpo e conosciamo così i nomi dei protagonisti palestinesi, che sì, sono circondati dalla distruzione, poiché il regista non intende filtrare la realtà, ma anche permeati di una luce nuova: le ombre e i colori freddi dominanti nella fotografia di Piombo Fuso, lasciano il posto ai colori caldi dei tramonti e delle albe, i campi coltivati si sostituiscono, in parte, alle macerie senza vita e agli spazi angusti. Alla tragedia senza eroi subentra il dramma di chi è ancora in vita e lotta. Conosciamo e ci riconosciamo nella loro quotidianità: un film melodrammatico in TV, i compiti pomeridiani, la preparazione del pane fatto in casa, le finte lotte tra bambini, la celebrazione di un matrimonio. Pur nella sofferenza, ognuno di loro è “uno” e vive grazie a - e nonostante le - proprie macerie. Si può forse riassumere la filosofia di Savona nelle parole di un palestinese nel film: “Chi non sa raccontare non è un vero uomo, è come una bestia”.